Lo YOGA DELLA CONCORDIA: ricerca interiore e cultura dei DIRITTI UMANI

Scritto da  Roberto Fantini

Il termine “yoga” è indubbiamente uno di quei termini per i quali è davvero difficile rintracciare una modalità convincente di traduzione, uno di quei termini, anzi, (come “lògos” , “dharma”, “nirvana”, ecc…) che, per via delle tante sfumature semantiche e delle molteplici implicazioni concettuali, sarebbe consigliabile non tentare neppure di tradurre.

Ciò nonostante, è pur necessario, oltre che legittimo, provare ad intenderne il concetto-cardine. Ispirandomi ad una affermazione di Mircea Eliade, intenderò lo yoga come pensiero e pratica mossi da un profondo desiderio di “unificare lo spirito, di abolire la dispersione e gli automatismi che caratterizzano la coscienza profana”. (Lo YOGA. Immortalità e libertà, Rizzoli, 1973, p.21)

Yoga, quindi, prima di ogni altra cosa, come capacità di pensare la realtà secondo la categoria dell’UNITA’.

Yoga come capacità di vivere la realtà secondo l’esigenza e la sensibilità dell’UNITA’.

E per Yoga credo si debba intendere un cammino fatto di molti cammini, un cammino che, attraverso tanti cammini, simili e diversi, distinti e intrecciati, aspira a condurre dalla condizione della divisione a quella dell’UNITA’.

Ma, se di unire, di unificare si tratta, è opportuno poter individuare chi e perché debba essere unito (o ri-unito) e in vista di quale obiettivo.

Se qualcosa-qualcuno deve essere unito/ri-unito, significa, infatti, che qualcosa-qualcuno è stato diviso o si è diviso.

E’ dall’analisi della condizione della SCISSIONE, pertanto, che credo sia opportuno prendere le mosse.

Ma in che senso è possibile parlare di una condizione di scissione?

Direi, innanzitutto, in senso METAFISICO :

l’esistenza stessa delle singole realtà individuate potrebbe, infatti, essere intesa come il risultato di un processo definibile proprio nei termini di “frantumazione” dell’Essere.

Scrive Anassimandro:

principio degli esseri è l’infinito (àpeiron) … da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.

In queste parole di rara potenza, che rappresentano il vero apparire del pensiero filosofico occidentale (e che riecheggiano temi rintracciabili in numerose tradizioni mitologiche), gli esseri vengono visti come scaturiti da un unico principio in cui, inesorabilmente, secondo un processo cosmico immanente e immodificabile, saranno poi riassorbiti. E l’esistere stesso dei singoli enti viene percepito come una sorta di “rottura” di una condizione primordiale indistinta, come l’effetto di una sorta di volontà “ribelle” che, nell’appropriarsi di una “particella di essere”, condanna se stessa alla dissoluzione finale.

Scissione, poi, in seconda istanza, da intendersi in senso FISICO :

gli esseri viventi sono tutti figli della finitezza, ovvero sono in quanto l’infinito si finitizza, sono quindi immersi nel limite (rinchiusi ed isolati nei loro involucri di pelle), e, come tali, appaiono sotto il dominio della separazione e della differenza.

Scissione, infine, in senso MORALE:

la finitezza e la differenza producono sentimenti di estraneità/lontananza, con conseguente condizione di contrasto e di scontro.

Pochi filosofi hanno descritto questa generale condizione del genere umano (ma, potremmo dire, dell’intero universo) con la stessa drammatica incisività riscontrabile in T.Hobbes, con la sua ben nota tesi del “bellum omnium contra omnes”, secondo cui l’affermarsi delle singole esistenze avrebbe determinato una condizione generale di conflittualità onnipervadente, tale da compromettere la stessa sopravvivenza del genere umano.

Tale condizione, immaginata dal pensatore inglese come uno stadio primordiale della vita della nostra specie, potrebbe, però, essere considerata anche come una sorta di cornice (o di linea di tendenza pervadente e permanente) all’interno della quale si verrebbero a sviluppare ricorrenti manifestazioni distruttive, classificabili come: violenza interpersonale; violenza politica; violenza religiosa; violenza economica.

-           VIOLENZA INTERPERSONALE intesa come espressione di atteggiamenti mentali e pratici, nei rapporti fra singoli individui, caratterizzati da avidità-invidia-arrivismo;

-           VIOLENZA POLITICA nei rapporti organizzati all’interno delle istituzioni statuali e nei rapporti fra stato e stato o, più semplicemente, fra gruppi di individui (schiavitù/discriminazioni di sesso/religione, ecc./ tortura/ pena di morte/ guerra);

-           VIOLENZA RELIGIOSA che si esprime in dogmatismi che ingabbiano il pensiero;

in autoritarismi che producono servilismo e passività;

in fanatismi che producono intolleranza e persecuzione dell’”eretico”, dell’infedele, dello scismatico, del non credente, ecc.

-           VIOLENZA ECONOMICA:

intesa sia come abbrutimento determinato dallo sfruttamento e da condizioni lavorative alienanti, sia come condizioni di vita disumane (mancanza di alloggio, di cibo, acqua, cure, ecc.).

In sintesi: le condizioni oggettive di scissione-contrapposizione generano, pertanto, VIOLENZA, la quale, a sua volta, genera SOFFERENZA. E violenza e sofferenza producono ODIO (il sentimento che più allontana e scinde gli uni dagli altri). E l’odio si rivela a sua volta, in un perverso processo circolare, sorgente inesauribile sia di violenza sia di sofferenza.

Come affrontare e come superare questo stato di cose, questi meccanismi che potrebbero essere intesi come una sorta di ineludibile “condanna”?

Credo che la strada da percorrere possa essere rappresentata da quel processo evolutivo riguardante sia la sfera dell’interiorità sia quella dell’esteriorità, che propongo di denominare “Lo Yoga della Concordia”, suggestivamente ed efficacemente indicato dalle parole di Plotino che, sul letto di morte , ci esorta a cercare di ricondurre l’infinito che è in dentro di noi all’infinito che è nell’universo.

Ma come procedere, però, su questa strada? Attraverso quali atti concreti, attraverso quali strategie?

Incontriamo una chiara possibile risposta in un celebre mito platonico presente nel Protagora.

All’alba della storia, Zeus, dopo aver donato ad alcuni uomini la sapienza tecnica, attraverso Hermes fa giungere all’umanità i doni del rispetto reciproco e della giustizia, affinché possano costituire principi ordinatori delle comunità umane e creare presso i cittadini vincoli di filìa , ovvero di SOLIDARIETA’ e di BENEVOLENZA.

Questo perché, privi di questi doni, “gli uomini vivevano sparsi qua e là” e quando cercavano “di unirsi e di salvarsi”, finivano sempre per commettere “ingiustizie gli uni contro gli altri”, disperdendosi nuovamente e trovando la morte.

Molto interessante davvero il fatto che, nel mito, Zeus stabilisca che, al contrario di quanto deciso per le arti meccaniche (destinate soltanto a pochi), tutti partecipino dell’ARTE POLITICA, la virtù umana per eccellenza, mirante alla costruzione della CONCORDIA, in quanto capace di armonizzare le molteplici differenti finitezze che, per dirla con Hobbes, rendono gli uomini “lupi agli altri uomini”.

 

                   YOGA COME LIBERAZIONE

Ora, però, se il primo e fondamentale concetto-chiave contenuto nel termine Yoga è senza dubbio quello di UNITA’, sempre sulla scia delle parole di Mircea Eliade, credo che si possa ben dire che ad esso debba essere strettamente collegato il concetto di LIBERAZIONE.

           Ma se Yoga è anche (e, in un certo senso, prima di tutto) liberazione, non possiamo che domandarci da cosa ci si debba liberare.

Nella consapevolezza di quanto possa essere difficoltoso redigere un elenco esaustivo di tutte le catene, i vincoli, le gabbie, ecc., di cui dovremmo liberarci, mi limiterò ad individuare una triade di opprimenti “tirannie” psicologiche e culturali insieme, cominciando da quella che, con Erich Fromm, potremmo definire la MODALITA’ DELL’AVERE.

Ovvero:

-           Smania di possesso;

-           Insaziabilità del desiderio consumistico e delle aspirazioni carrieristiche;

-           Competitività cinica e spietata;

-           In definitiva: l’egocentrismo peggiore inteso come sistema di vita.

         Liberazione, poi (secondo l’analisi suggeritaci da Epicuro), dalla condizione di PAURA, intesa innanzitutto come paura della/e divinità. Paura, cioè, di essere osservati, controllati e guidati (ed eventualmente puniti) da entità trascendenti che esercitano su di noi poteri superiori incontrollabili, in maniera a noi imperscrutabile, rendendoci pedine lanciate sulla scacchiera, secondo piani, progetti o semplici capricci a noi del tutto ignoti e impenetrabili.

Intesa, poi, come paura della morte, ovvero timore irrefrenabile (e molto spesso taciuto anche a noi stessi) di essere condannati ad imbatterci in qualcosa di tenebroso, di terribile, in qualcosa che spietatamente ci recide, ci oltraggia, ci rapina dei nostri giorni, di tutti i soli e di tutte le primavere.

Intesa, infine, come paura del dolore, come paura di essere destinati ad essere fatalmente vittime di fenomeni imprevedibili, capaci di straziarci il corpo e l’anima, di spargere in noi sofferenze corpose come macigni e sottili come lame.

Sempre le paure, consce o inconsce che siano, producono in noi conseguenze nefaste, quali, ad esempio:

-           Insicurezza;

-           Bisogno di protezione-consolazione;

-           Sudditanza e tendenza alla passività.

 

E, infine, dagli “Idolidella nostra mente:

-           Visione erronea e distorta del reale in funzione del nostro angusto osservatorio personale;

-           Percezione dell’Altro come lontano e non come “prossimo”, come rivale-nemico e non come fratello, come sostanzialmente “altro da sé”;

-           Demonizzazione dell’Altro e sua conseguente discriminazione-persecuzione come momento culminante della perversa sinergia tra modalità dell’avere e condizione psicologica tiranneggiata dalla paura.

-            

       DUE MODELLI DI UMANITA’ A CONFRONTO

Espressione massimamente esplicita e coerente di quella che proporrei di chiamare “cultura della separazione” può certamente essere considerata l’ideologia nazista.

Scrive A.Hitler:

L’intera opera della natura è una poderosa lotta della forza contro la debolezza – l’eterna vittoria dei forti sui deboli.”

La natura è spietata. Pertanto spietati possiamo essere anche noi.”

Giuliano Pontara, in una delle sue ultime opere, (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA, Torino 2006)

ha così focalizzato i perni teorico-pratici dell’ideologia nazista:
a. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia;

b. il diritto assoluto del più forte;

c. lo svincolamento della politica da ogni limite morale;
d. l’elitismo;

e. il disprezzo per il debole;

f. la glorificazione della violenza;

g. il culto dell’obbedienza assoluta;

h. il dogmatismo fanatico.” (p.29)

Ovviamente, la natura di cui ci parla Hitler non è la natura, bensì la natura secondo Hitler.

Sempre, infatti, il mondo fuori di noi è letto e interpretato sulla base del mondo che percepiamo dentro di noi. E infiniti come i soggetti percipienti sono i modi in base a cui intendere sé e il mondo.

Ma, in uno sforzo di generalizzazione, potremmo ridurli a due fondamentali, in radicale contrapposizione fra di loro: quello ora esposto, fondato sulla triade divisione-odio-violenza e quello fondato sulla triade unione-amore-non violenza, che, sempre Giuliano Pontara vede puntualmente formulato dal pensiero gandhiano:

 

  1. 1.Il mondo come teatro delle forze costruttive;
  2. 2.Il primato della democrazia;
  3. 3.La subordinazione della politica all’etica;
  4. 4.L’umiltà dell’egualitarismo;
  5. 5.L’empowerment dei deboli;
  6. 6.La dissacrazione della violenza;
  7. 7.La responsabilità della disobbedienza;
  8. 8.Il fallibilismo.

(ivi, p.322)

Molto incisive, a tale proposito, le seguenti parole di Arthur Schopenhauer:

In realtà, l’uomo può aver coscienza della propria esistenza in due opposti modi: e ciò, nell’intuizione empirica, così come essa si presenta dall’esterno, ossia, come un atomo nel mondo spazialmente e temporaneamente infinito; come uno tra le migliaia di milioni di esseri umani vaganti pel mondo, rinnovantisi nel breve giro di trent’anni; - ovvero coll’inabissarsi nel proprio interno e pervenire alla coscienza di essere tutto nel tutto, di essere propriamente la sola reale essenza, la quale a lui si rispecchia ancora per giunta in ciascuno degli altri esseri che egli apprende dall’esterno.” (in Morale e Religione, Mursia, Milano 1981, p55)

Da una parte, quindi, la realtà sgretolata nel tempo e nello spazio, così come ci appare sul piano dell’intuizione sensibile, nella prospettiva, cioè, del“principium individuationis”; dall’altra il “tat tvam asi” della tradizione upanishadica, la percezione, cioè di un intimo e inscindibile legame che tutto abbraccia e che dissolve le differenze fra i vari esseri.

Dall’emergere e dall’ affermarsi di questa condizione di coscienza, scaturirebbero, secondo Schopenhauer, due coerenti (e, in un certo senso, “rivoluzionarie”) scelte comportamentali:

 

- la GIUSTIZIA, ovvero l’evitare che alcuno possa soffrire o commettere ingiustizia;

- l’AGAPE, il con-sentimento, l’empatia che ci permette di scoprirci indissolubilmente intrecciati ai destini altrui, alle loro gioie e alle loro sofferenze.

 

       TOLLERANZA E DIGNITA’ DELLA PERSONA

In questo percorso che conduce alla formazione di una coscienza allargata/universalizzata, appaiono di indiscutibile centralità due valori affermatisi con particolare vigore all’interno della cultura umanistico-rinascimentale e di quella illuministica, quello della TOLLERANZA e quello della DIGNITA’ della PERSONA.

Per quanto concerne il primo concetto, impossibile non pensare, fra i tanti, a Niccolò Cusano e al suo De pace fidei, nonché a Pico della Mirandola, alle sue 900 tesi e all’ entusiasmante progetto di un concilio di sapienti delle varie credenze filosofico-religiose, al fine di instaurare una condizione di concordia, tale da porre fine ad antagonismi , incomprensioni e orrendi spargimenti di sangue.

E impossibile non pensare anche alla toccantissima Preghiera a Dio con cui Voltaire conclude il suo Trattato sulla tolleranza.

“(…) Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera.
Fa sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.

Tolleranza da intendersi, sia ben inteso, non semplicemente come “sopportazione” più o meno rassegnata dell’altro o come forma di paternalistica o altezzosa concessione, ma come costruttivo, umile e rispettoso atteggiamento di riconoscimento del diritto dell’altro ad esistere e a rivelarsi nella sua specificità, nonché a credere e a diffondere le proprie convinzioni religiose e politiche in una prospettiva dinamica, dialettica e fallibilistica.

Anche per quanto concerne il concetto di “dignità della persona”, è nella cultura umanistica che possiamo rintracciare le sue più chiare manifestazioni, basti pensare, almeno, al De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti e alla imprescindibile Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola.

In entrambi i testi (che sembrerebbero ricalcare lo schema narrativo del mito platonico presente nel Protagora), il valore dell’essere umano è inteso come qualcosa di unico e di incomparabilmente superiore a quello di ogni altro essere. Ma è prezioso, in particolar modo, quanto si evince dal testo pichiano: la grandezza, l’eccezionalità umane non sono un “fatto di natura” o un dono divino, bensì risiedono e scaturiscono dalla peculiare condizione dell’essere umano, chiamato (potremmo dire condannato) a decidere di sé e della sua vita, a scegliere la sua collocazione presente e futura all’interno di un cosmo in cui tutto, al contrario, svolge funzioni già predeterminate. La dignità umana risiederebbe, pertanto, nel diritto-dovere di farsi consapevole e responsabile creatore di se stesso e del proprio avvenire.

Ma la sua formulazione più compiuta, nell’ambito del pensiero moderno occidentale, la rintracciamo nella concezione etica kantiana dell’imperativo categorico e delle sue formule .

Le tre formule dell’imperativo categorico, infatti (universalità, dignità della persona umana, autonomia), contengono, a mio avviso, un chiaro progetto di vera e propria rifondazione dei rapporti umani, liberati da ogni sorta di condizionamento ideologico-confessionale, edonistico ed utilitaristico, e basati sul riconoscimento di quella che potremmo definire la pari dignità di tutti gli uomini in quanto esseri pensanti e in quanto esseri dotati di coscienza morale, come tali chiamati a vivere nel rispetto reciproco di sé e del proprio autonomo cammino:

L’umanità – scrive Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi - è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine.”

Il principio della dignità della persona umana, intesa come ente in sé e per sé pregno di significato e di intrinseco valore, derivante dalla sua dimensione ontologica e non da elargizioni-concessioni di natura politico-religiosa, fondata, cioè, su qualcosa di assoluto (ed essa stessa pertanto   assoluta) e non su fenomeni storici contingenti (e quindi transitori), può rappresentare, agli occhi di chi ha imparato a leggere la storia umana secondo categorie interpretative di ampio respiro olistico, una chiara riproposizione, in moderni termini filosofici, di una concezione antichissima, quella mistico-teosofica dell’essere umano inteso come emanazione del divino o, meglio, come parte inscindibile del Sacro, monade indistruttibile di un’unica forza cosmica.

 

                 LA CULTURA DEI DIRITTI UMANI

Ora, questi due concetti rappresentano una sorta di premessa logico-propedeutica agli altri due concetti – chiave di quella che viene considerata la CULTURA DEI DIRITTI UMANI del mondo contemporaneo:

 

EGUAGLIANZA e LIBERTA’.

Prima ancora della stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre del 1948, fu il famoso messaggio del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt al Congresso (6 gennaio1941), ad indicare un ampio e concreto modo di intendere il concetto di Libertà, riferendosi alle cosiddette “Quattro libertà fondamentali”, al fine di delineare l’immagine della nuova società mondiale che sarebbe dovuta sorgere alla conclusione del conflitto:

- libertà di parola e di pensiero;

- libertà religiosa;31

- libertà dal bisogno (implicante “intese economiche che assicurino a ogni nazione una vita sana e pacifica per i suoi abitanti”);

- libertà dalla paura (“attraverso la riduzione degli armamenti a tal punto e in tal modo che nessuno Stato sarà in grado di commettere atti di aggressione fisica contro il suo vicino”).

Potremmo dire che tutta la filosofia e la prassi dei diritti umani scaturiscano da un grande sogno e bisogno di felicità estesa all’umanità intera, che hanno tratto alimento dalla constatazione, visceralmente sentita, del carattere fortemente ambivalente della condizione umana: immensamente fragile e vulnerabile per la sua componente corporea; immensamente grande nella sua componente mentale e spirituale.

Consapevolezza che ha spinto l’uomo a costruire intelligenti strategie culturali, politiche e giuridiche, al fine di arginare l’esperienza del dolore e, allo stesso tempo, favorire quella confortante e rassicurante dell’affratellamento solidale (purtroppo ancora ampiamente in cantiere).

Nulla di meglio, per comprendere l’eccezionale portata storica della Dichiarazione Universale, delle parole del

grande giurista René Cassin, vero padre spirituale del documento e premio Nobel per la Pace 1968:

“(La Dichiarazione)è il vessillo di tutti coloro che sono vittime di persecuzione e abusi di ogni genere. È la sintesi dei principi etici e delle civiltà del nostro tempo e, in quanto tale, si eleva come un monumento perenne che domina le Costituzioni nazionali… Ora possediamo una

leva capace di sollevare e alleviare il peso dell’oppressione e dell’iniquità:impariamo a servircene! La Dichiarazione impegna la responsabilità delle nazioni e degli individui, uno per uno”.

E per cogliere ed apprezzare la grandezza dell’operazione culturale realizzata attraverso la Dichiarazione Universale del 1948, potrebbero bastare già le tesi contenute nel suo Preambolo, laddove si afferma che

“ (…) il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo “, e quelle presenti nell’art.26, laddove, nel riferirsi all’attività educativa, si afferma che essa “deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le nazioni, i gruppi razziali e religiosi”.

La scelta delle parole e la loro successione sono, ovviamente, tutt’altro che casuali: la giusta comprensione (che una corretta educazione dovrebbe promuovere) della vera natura dell’umanità, ovvero della sua fondamentale-intrinseca-ineliminabile unità biologica e spirituale è la porta che dovrebbe condurci all’instaurazione di rapporti sia inter-personali sia inter-nazionali improntati alla tolleranza e orientati a tradursi in autentica e fraterna amicizia (filìa).

 

YOGA DELLA CONCORDIA E CULTURA DEI DIRITTI UMANI

Credo sia possibile pensare che la Cultura dei diritti umani rappresenti il frutto maturo di una felicissima convergenza fra gli antichi principi delle concezioni mistico-sapienziali rintracciabili alla radice di tutte le grandi esperienze religiose dell’umanità e le migliori conquiste del moderno pensiero laico (umanistico-illuministico) di impronta razionalistico-empiristica.

Ogni qualvolta l’animo umano ha saputo svincolarsi dai condizionamenti empirico-particolaristici, proiettandosi in una prospettiva volta al trascendimento dei confini soffocanti dell’io (separato e separante), ha finito per scrivere una pagina preziosa di quello che mi piace definire lo YOGA DELLA CONCORDIA.

Uno Yoga che ci richiede e ci propone un progetto di UNITA’ nella DIVERSITA’ o, se si preferisce, di rispetto delle diversità all’interno di una dimensione UNITARIA E UNIFICANTE.

Detto in sintesi: un progetto di ricerca e di costruzione di una CONCORDIA viva, autentica e in perenne espansione.

Da:

 http://www.flipnews.org/flipnews/index.php?option=com_k2&view=item&id=5562:lo-yoga-della-concordia-ricerca-interiore-e-cultura-dei-diritti-umani&Itemid=76

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