Felicità e dolore

 Di: Giuseppina Fancio Liguori

Immaginiamo di trovarci in una stanza completamente buia, mentre fuori, tutto intorno, c’è una gran luce. Ebbene, se noi apriamo finestre e porte, ecco che la luce irrompe ed illumina la stanza in cui fino ad un momento prima c’era l’oscurità.

Immaginiamo ora di trovarci in una stanza pienamente illuminata, mentre intorno regna sovrano il buio ed ancora una volta apriamo finestre e porte: la stanza non perde la sua luminosità, mentre all’esterno si propaga la luce che prima era solo dentro le quattro mura. Il buio non può prevalere sulla luce e la luce può trasformare il buio in luce.

Osservando gli avvenimenti tragici di violenza che si manifestano intorno a noi, ci sembra che l’umanità corra verso la sua rovina. Ma ricordiamo la metafora della luce e dell’oscurità e continuiamo a procedere verso la luce.

Come argomento per la mia chiacchierata d’apertura, ho pensato ai due cardini sui quali si impernia la vita intera dell’uomo e cioè la felicità ed il dolore, opposti e complementari al tempo stesso. Sono concetti che si possono esaminare da vari punti di vista, da quello prevalentemente materialistico di chi insegue la prima e rifugge il secondo, basando la sua visione di vita sull’egoismo e sull’edonismo, a quello di chi, trascendendo la condizione di creatura terrestre, desidera elevarsi gradualmente per raggiungere l’unione con la Vita Divina.

L’idea di felicità è strettamente collegata alla personalità di ognuno; chi la identifica nel benessere materiale – e sono i più – chi nella salute fisica, chi nell’appagamento di desideri, qualunque sia il loro livello, chi nell’ottenimento di riconoscimenti, onori, ricchezze. Tutti costoro devono però ammettere che quand’anche alcune di queste mete vengano raggiunte, essi ne traggono una soddisfazioe solo momentanea, riprendendo subito a porsi altre mete: si vuole sempre di più, mettendo spesso la coscienza a tacere ed accettando compromessi.

La felicità dunque non esiste? O è tangibile solo in qualche sprazzo di gioia? Nell’attimo fuggente?

L’altra faccia della medaglia, il dolore, è visto come uno sgradito ospite da evitare ed eventualmente scacciare al più presto.

Per i cristiani il peccato originale di Adamo ed Eva avrebbe causato la sofferenza umana.

Nel racconto della creazione si legge che il primo uomo, androgino, venne posto nell’Eden, luogo di beatitudine. Fra i tanti alberi presenti nel Giardino, ne vengono menzionti due: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Occorre tener presente che Adamo, essendo androgino, non era ancora diviso in una coppia di opposti, era ancora una sola cosa con il Tutto. Ma avvenne che egli sentì nascere in sé il desiderio di accentuare una parte di sé. Si narra così che cadde in un sonno profondo, durante il quale gli venne sottratto ciò che nel testo originale ebraico viene definito “tselab”, cioè lato, fianco e che Lutero tradusse con il termine “costola”.

L’uomo globale venne diviso in due aspetti diversi, chiamati “uomo” e “donna”. Questa separazione rese possibile la lusinga del serpente, che illuse la donna dicendole che, gustando il frutto dell’albero del bene e del male, avrebbe acquisito la conoscenza, divenendo simile a Dio.

Questo evento avrebbe posto l’umanità nella condizione di dover riacquistare l’originaria perfezione attraverso la sofferenza.

Dio, quindi, punì Adamo ed Eva con un giusto castigo, riducendoli così da immortali quali erano a mortali e, attraverso loro, questa condizione venne trasmessa a tutta la loro discendenza, affinché ogni essere umano potesse divenire consapevole e dovesse riconquistare la propria salvezza.

Si potrebbe ravvisare in ciò il primo seme del Karma che, come sappiamo, consiste nel raccogliere ciò che si è seminato.

Il senso di separatività impedisce ai più la corretta informazione circa queste consequenzialità. Infatti si pensa: “Perché devo soffrire per la colpa di quel primo uomo?”. Nello stesso modo, a chi parla di reincarnazione, si obietta: “Ammesso che la dottrina delle rinascite sia rispondente alla realtà, perché devo pagare per le colpe dell’altro che ero?”. E’ questo errore che preclude la visuale del traguardo dell’unione con il Tutto, con il Divino, con ciò che Gesù definisce “la casa del padre”.

Il soffio di Dio creò la vita e rese manifesta nell’uomo questa creazione, visibile attraverso il corpo. Si potrebbe desumere che ciò che viene chiamato peccato originale, causa del dolore che colpisce i discendenti di Adamo, non sia stata un’infrazione ad una legge morale, ma la derivazione della limitazione in cui venne a trovarsi l’uomo quando fu immerso nella materia.

In quella condizione l’uomo smarrì la cognizione della sua origine spirituale, sua definitiva meta, che dovrà raggiungere per conoscere la vera felicità, vivendo la vita con amorevole comprensione e compassione, accogliendo consapevolmente le leggi che regolano l’esistenza nel mondo della materia: le leggi della causalità e della rinascita, o giusto compenso, leggi che sono riconducibili, come ogni altro evento, agli altri corpi, forze e movimenti cosmici. La legge delle rinascite, unica chiarificatrice delle apparenti ingiustizie della vita, dà la possibilità ad ognuno, nel tempo, di adeguarsi ad un modello sempre meno egoistico e separativo.

La mente dell’essere compassionevole desidera che gli altri siano liberi dalla sofferenza. La mente dell’uomo amorevole desidera che tutti gli esseri siano felici, perché nessuno può sentirsi felice in mezzo al dolore degli altri.

Tutti coloro che vivono nel nostro mondo affrontano ogni giorno un’infinità di problemi, ma il punto essenziale è che questi non nascono dal nulla, senza cause. Rendiamoci infine conto che le cause principali delle nostre avversità risiedono nella nostra mente, anche se sono presenti condizioni esterne che influiscono a rafforzare la situazione. Due fattori della mente favoriscono l’insorgere della negatività: l’attaccamento e l’odio; sono questi aspetti della personalità che portano nocumento a noi ed agli altri.

Quando riusciamo a comprendere l’unicità e la continuità della vita, i nostri istinti e le nostre passioni non hanno potere di dominio su di noi, ci possiamo liberare dall’essere loro schiavi e questo affrancamento diviene libertà e la libertà è felicità.

Abbiamo parlato molto di questo nel Seminario dell’anno scorso nel ricordo di Krishnamurti.

Questa conoscenza ha la sua culla in oriente da antichissimo tempo. Ma anche in occidente uomini di scienza e di pensiero hanno colto questa verità. Citiamo Clifford, non uno spiritualista né un filosofo, ma un fisico inglese, che circa un secolo fa scriveva: “La caratteristica delle cose viventi è che, per influenza delle circostanze, esse non soltanto cambiano, ma ogni cambiamento rimane e si inserisce nell’organismo, in modo da servire di base alle azioni future. Se durante la crescita di un albero si produce una deformazione, qualunque cosa poi si faccia per rimediarvi, il segno della distorsione rimane, è assolutamente indelebile e diviene parte della natura dell’albero!”.

A significare che ogni evento che si attua in noi è effetto di una causa e contemporaneamente diviene causa di un effetto.

Concetto analogo esprime il filosofo francese Bergson, fondatore dell’“Intuizionismo”. Nel suo saggio Evoluzione Creatrice scriveva: “Come l’universo nel suo insieme, come ogni essere cosciente considerato a sé, l’organismo vivente è qualcosa che dura. Il suo passato si prolunga compatto nel presente e vi resta attuale ed operante”.

Bergson, Premio Nobel nel 1928, non parla esplicitamente di Karma, ma il significato delle sue parole e del suo pensiero si può compendiare in questo termine.

Il nostro Karma ci è dunque compagno costante; finché agiamo in maniera egoistica ne siamo schiavi: esso è il nostro giusto creditore, poiché ciò che ci accade non è dato da fattori oscuri fuori di noi, ma proviene dalle azioni di quelli che fummo.

Pur tuttavia, quand’anche si afferri con l’intuizione e si accolga con la ragione la semplicità e la bellezza di questi concetti, lo scoglio è metterli in pratica.

“Purificate il cuore: questa è la vera religione”, ha detto il Buddha.

Vediamo intorno a noi gli effetti del massiccio progresso industriale e tecnologico che, sia pure con molti effetti collaterali decisamente nocivi, permette tuttavia una vita più agevole e meno faticosa che nel passato. Vediamo le mirabili conquiste della biomedicina, che consentono un’esistenza più lunga e più sana.

Il gruppo di malattie chiamate psicosomatiche, come espresso dal termine stesso, deriva dalla psiche, che in molti è disturbata e disarmonica. Molte altre malattie sono causate dai nostri errori e malsane abitudini (fumo, droga, alcool) o da erronei comportamenti alimentari. E’ come il codice della strada, che farebbe evitare moltissimi incidenti se gli automobilisti vi si attenessero.

Per una possibile convivenza occorrono regole valide ed uguali per tutti, nel campo civile, come sul piano etico.

Sono considerazioni ovvie e chiare.

Eppure…

Eppure le regole vengono disattese e calpesate, c’è gente che presume di porsi al disopra di esse. Puntualmente arrivano le conseguenze dannose, negative, rovinose.

Tutto ciò riguarda la sfera materiale della nostra vita. Ma per la nostra spiritualità, cioè la parte eterna della nostra individualità, che facciamo? Avere il mondo e perdere noi stessi?

La domanda è: sapremo passare dall’enunciazione di concetti che pur riteniamo giusti, all’accoglimento ed all’attuazione di essi, per avviarci sulla via della salvezza?

Per dirla con Krishnamurti non basta, quando si ha fame, guardare il cibo e chi se ne serve, ma occorre nutrirsi direttamente.

I sette peccati capitali, di cui parla la Chiesa Cattolica sono esattamente gli ostacoli che ci sbarrano la via. Sono le porte che devono essere aperte, l’una dopo l’altra, perché si attui in noi la vera vita divina. Quando queste porte saranno schiuse, quando i tratti inferiori della personalità saranno neutralizzati, si avvererà in noi ciò che Blavatsky chiama “la voce del silenzio”; il silenzio in cui si fa udire la voce della coscienza. La coscienza poi diviene ancora più esigente: ci dice che non dobbiamo compiere questo lavoro solo per noi stessi, poiché, come si è detto, siamo uniti nel Tutto.

Se si vuole continuare a vivere solo per il proprio profitto, se si vuole consentire a lasciarsi trascinare nella corrente della vita materiale, con le sue illusioni e le sue delusioni, lasciamo pur chiuse le porte, ma rendiamoci conto che dovremo poi riprendere la via con un grave handicap alla partenza. E questa ferita non coinvolgerà solo noi, ma l’intera umanità. Ogni volta invece che nella vita giornaliera riusciremo a superare la nostra componente materiale, per ascoltare la voce della coscienza, sia pure per qualche minuto, aiuteremo noi stessi e gli altri, così come un treno veloce porterà in fretta alla meta molta gente ed una medicina efficace salverà chiunque ne abbia bisogno e la prenda.

L’uomo è cieco per quel che riguarda se stesso: è raro sentire qualcuno che riconosca i suoi difetti e confessi le proprie malefatte: è sempre colpa degli altri, delle circostanze avverse. Perciò un antichissimo precetto esorta: “Uomo, conosci te stesso”. E’ la prima tappa di un diverso atteggiamento di fronte alla polarità felicità-dolore. Ed è quello cui tendiamo, come mezzo e come meta, noi studiosi di Teosofia, che è universale, per divenire teosofi e quindi aiutatori di noi e degli altri.

E’ lo stato esaltante che si trova al di là della comprensione umana, chiamato Paradiso dai cristiani, Nirvana dai buddhisti, Moksha o Liberazione dai vedantini. E’ il riscatto da tutte le difficoltà, dolori, sofferenze inerenti la vita quotidiana; è il superamento della falsa credenza di essere una realtà separata. Quando ci si è liberati da questo errore non si è più sottoposti al ciclo delle rinascite: non producendo la causa, non esiste l’effetto. E’ la grande occasione da cogliere, attraverso l’evoluzione spirituale. Anche il dolore, la malattia, le avversità saranno visti come gli ostacoli, inevitabili perché effetti di cause remote da noi stessi procurate e, quindi, accettabili, anzi come mezzo di catarsi nella corsa che ognuno deve compiere con le proprie forze.

Attraverso questo nuovo atteggiamento si riuscirà a vedere la sofferenza dell’altro, si potrà sconfiggere la conflittualità e la contrapposizione, si riuscirà a superare la polarità che divide e separa.

Difficile? Sì, ma non certo impossibile.

Che fa l’atleta che si propone un traguardo? Si allena giorno dopo giorno, incurante della fatica, fatica che avverte sempre meno. E cosa fa un artista che insegue il sogno di donare la bellezza che gli barluma nella mente (perché è ciò che riceve chi ascolta una musica ispirata, o si commuove alla melodia di una poesia, o ammira l’armonia e la policromia di un quadro)?

L’artista ruba tempo al tempo e non vive che per inseguire il suo miraggio.

Non vogliamo essere gli atleti e gli artisti partecipi in prima persona al conseguimento della nostra conquista: la vita Divina?

 

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