I cicli della vita e l'eternità

di Riccardo Scarpa

Alla fine del XX secolo dell'êra volgare, un noto e potente movimento giovanile di cattolici romani, che teneva periodicamente un incontro annuale a Rimini, invitò ad uno di questi il Dalai Lama. L'allora regnante iniziò in modo rituale, presentandosi quale incarnazione d'un Bodhisattva, un perfetto illuminato che ha rinunziato a raggiungere il nirvana, ad essere un Budda, per aiutare l'evoluzione dei viventi. Il pubblico convenuto rise, la radio e la televisione registrarono ciò senza enfasi, ma implacabilmente, qualche giornale commentò, l'ospite fece mostra di non accorgersi di nulla e proseguì per la sua strada. Il fatto rilevò solo la superficialità degli astanti, che probabilmente usavano ripetere la formula del Credo di Nicea Costantinopoli sulla resurrezione dei morti, e l'attesa del mondo che verrà, senza aver mai approfondito l'origine della stessa ed il suo rapporto colle visioni sulla vita e l'Eternità presenti ai cuori ed alle menti degli estensori. Qui si cercherà di riflettere, alla luce del pensiero teosofico, sulle visioni della vita, per mettere ordine almeno in noi.

Anima Mundi

         Scriveva W. Winwood Reade nel secolo XIX dell'êra volgare: “All'inizio gli uomini godettero delle benedizioni della natura come fanno i bambini, senza chiedersi il perché. (...) E venne poi tra loro un sistema di teologia vago ed indefinito, come le acque del mare sconfinato. Essi dicevano tra loro che il sole e la terra, la luna e le stelle venivano spostate ed illuminate da una Grande Anima che era la fonte di tutta la vita, che faceva cantare gli uccelli, mormorare i ruscelli ed ondeggiare il mare. Era un Fuoco sacro quello che brillava nel firmamento e nelle potenti fiamme. Era uno strano Essere che animava le anime degli uomini e che, quando i corpi morivano, ritornavano nuovamente a lui. (...) Quando coloro che amavano giacevano morti, essi emettevano selvaggi lamenti e gettavano disperatamente le braccia verso l'Anima misteriosa; perché nei momenti di difficoltà la mente umana, così debole, così indifesa, si aggrappa a qualcosa di più grande di sé. Fino ad ora essi adoravano solo il sole, la luna e le stelle – e non come Dei, ma come visioni di quella Divina Essenza che sola pervadeva la terra, il cielo ed il mare”[1].

Reincarnazione o Metempsicosi

         Si legge, nel Bhagavad Gitâ, II, 22: Come un uomo deponendo i vecchi abiti ne prende altri nuovi, così lo Spirito dispogliando i vecchi corpi entra in altri nuovi”. Platone, nel Menone, afferma: Poiché l'anima è immortale, rinata molte volte, ed ha visto le cose di quaggiù e di laggiù, insomma tutte, non c'è nulla che non abbia imparato. Perciò non è da meravigliarsi se può rivedere quello che essa già conosceva intorno alla virtù ed alle altre cose”. Dapprima intuita dagli orfici, e poi consacrata dai Druidi[2] ed indagata da Pitagora ed Empedocle, prima che da Platone, la reincarnazione consiste in questo stabilirsi di un qualche cosa di vivente in una successione di corpi umani, secondo la descrizione di Annie Besant[3]. Per quanto concerne quel qualche cosa di vivente si legge nel Pimandro di Ermete Trismegisto: “Negli animali irragionevoli la mente è natura, poiché ovunque c'è anima v'è anche mente, e dove c'è vita v'è pure anima. Negli animali irragionevoli, tuttavia, l'anima è priva di mente autonoma. Quest'ultima è la guida benefica delle anime umane: essa le conduce verso il loro bene, mentre negli animali opera nel senso della loro natura. Quella che Ermete Trismegisto chiama natura, per Helena Petrovna Blavatsky, secondo la tradizione di Ammonio Sacca e dei teosofi della scuola eclettica d'Alessandria è l'Anima Universale, dalla quale vengono quelle personali: Donde viene l'elemento umido della medusa? Dall'oceano che la circonda, in cui essa respira ed ha il suo essere, ed a cui ritornerà quando si dissolverà”[4]. Tuttavia: Platone e Pitagora- dice Plutarco-suddividevano l'anima in due parti: la ragione (nòetia) e l'irrazionale (agnoia); quella razionale è eterna; pur non essendo Dio, è il prodotto di una Deità eterna, mentre la parte dell'anima priva di ragione (agnoia) muore”[5]. Helena Petrovna Blavatsky precisa che Platone: parla dell'uomo interiore costituito di due parti – una immutabile e sempre la stessa, formata dalla sostanza della Divinità, e l'altra mortale e corruttibile. (...) Egli spiega che quando l'anima (psyche) si unisce al nous (spirito divino o sostanza divine – Paolo chiama il “Nous” di Platone “Spirito”), tutto quello che fa è giusto e riesce felicemente, mentre quando si attacca ad anoia (il nostro kama rupa) o “anima animale”, come nel “Buddismo esoterico” va allora in contro al suo completo annichilimenti, per quanto concerne l'Ego personale; se invece si unisce al nous (Atma-Buddi) allora si fonde coll'Ego immortale imperituro e la coscienza spirituale di quella che fu la sua natura personale diventa immortale”[6].È quanto con precisione esprime George Ivanovitch Gurdjieff quando chiarisce: Molte cose sono possibili, ma occorre comprendere che l'essere dell'uomo, sia nella vita che dopo la morte, ammesso che esista dopo la morte, può essere di qualità molto differente. L' “uomo macchina”, per il quale tutto dipende da influenze esteriori, per cui tutto accade, che ora è un certo uomo, il momento dopo un altro e più tardi ancora un terzo, non ha avvenire di sorta: viene sepolto e basta. È polvere e ritorna polvere. Questo è detto per lui. Perchè si possa parlare di vita futura, di qualsiasi genere, ci deve essere una cristallizzazione, una certa fusione delle qualità interiori dell'uomo: una certa indipendenza dalle influenze esteriori, allora proprio questo qualcosa potrà resistere alla morte del corpo fisico. Ora pensate: che cosa potrà resistere alla morte del corpo fisico in un uomo che sviene o dimentica tutto quando si taglia il dito mignolo? Se in un uomo vi è qualche cosa, questo qualcosa può sopravvivere; se non vi è niente, allora niente può sopravvivere. Ma anche se questo qualcosa sopravvive, il suo avvenire può essere molto vario. In certi casi di completa cristallizzazione, dopo la morte si può produrre ciò che la gente chiama “reincarnazione”; in altri casi, ciò che chiamano una “esistenza nell'al di là”. Nei due casi, la vita continua nel “corpo astrale” (...) Ciò che può essere chiamato “corpo astrale” è ottenuto per fusione, cioè per mezzo di una lotta e di un lavoro interiore terribilmente duro. L'uomo non nasce con un corpo astrale, e solo pochissimi uomini possono arrivare ad averne uno. Una volta costruito il “corpo astrale” può continuare a vivere dopo la morte del corpo fisico, e può rinascere in un altro corpo fisico: ecco la “reincarnazione”. Se non è rinato, allora nel corso del tempo muore anch'esso; non è immortale ma può vivere molto tempo dopo la morte del corpo fisico”[7]. Chiarisce, sul punto, Annie Besant: Qui erano, per così dire, due poli dell'evolvente manifestazione della Vita: la vita Animale, con tutte le sue potenzialità sul piano inferiore, ma necessariamente priva di mente e di coscienza, errante alla venuta sulla terra, tendente inconsciamente a progredire per effetto della forza impellente interiore che la spinge sempre più avanti; e la vita Divina, forza troppo elevata per la sua pura natura eterea per raggiungere la coscienza sui piani inferiori, e perciò incapace per colmare l'abisso che si stendeva fra essa ed il cervello animale che essa vivificava, ma non poteva illuminare (...) Quando l'ora fu suonata, la risposta venne dal piano mentale o mânasico. Mentre questa doppia evoluzione suddetta, la monadica e la fisica, si era svolta sul nostro globo, una terza linea di evoluzione, destinata a trovare la sua mèta nell'uomo, aveva avuto luogo in una sfera più alta. Questa linea era quella dell'evoluzione intellettuale e i soggetti di quest'evoluzione sono i minori dei Figli della Mente (Mânasputra) (...) che, a un certo stadio dell'evoluzione, entrano, s'incarnano negli uomini (...) È interessante e significativo notare che la parola man (vocabolo inglese = uomo), che si riscontra in tante lingue, è fatta risalire a questa parola Manas, alla sua radice man: pensare. Skeat (Etymological Dictionary, sotto la voce “man”), rintraccia questa parola nelle lingue inglese, svedese, danese, tedesco, islandese, gotico, latino (mens, per manas), derivandola dalla radice man, e perciò definendo l'uomo come un “animale pensante”. (...) Quest'uomo è l'anello di congiunzione tra il Divino e l'Animale che noi abbiamo esaminato come essenzialmente connessi e tuttavia trattenuti dal fondersi completamente”[8]. È questo pensatore l'ego trasmigrante da un corpo all'altro nella storia delle reincarnazioni: “Se avessimo l'abitudine di identificarci nel pensiero non colla dimora in cui viviamo, ma coll'Io umano che vi sta dentro, la vita diverrebbe una cosa più grande e più serena. Scuoteremmo da noi le nostre pene come scuotiamo la polvere dei nostri indumenti e comprenderemmo che la misura di tutte le cose che ci accadono non è il dolore, o il piacere che esse arrecano ai nostri corpi, ma il progresso o il ritardo che apportano all'Uomo che sta dentro di noi”[9]

L'Eterno Ritorno

         La trasmigrazione inquadra la vita nel tempo in una prospettiva progressiva. In essa l'evoluzione nei regni minerale, vegetale ed animale si fa nell'Uomo, che abbia cristallizzato una propria consapevolezza, reincarnazione dell'ego pensante, pienamente individualizzato e cosciente. Secondo il punto di vista dell'eterno ritorno s'ha, invece, una accettazione stoica del ruotare su se stesso del corso degli eventi del mondo, in una serie infinita di ripetizioni. È, quindi, punto di vista connesso all'idea d'un ciclo ricorrente del tempo, rinvenibile nelle antiche radici della filosofia indiana, nella tradizione taoista in Cina, anche nell'orfismo e nel pitagorismo, dove s'intreccia colla prospettiva della trasmigrazione e quindi dell'evoluzione, in Empedocle, per trovare, come si diceva, pienezza nel sistema degli stoici, colla loro percezione dei cicli storici. Sull'antica tradizione dell'India Helena Petrovna Blavatsky parla delle: riapparizioni periodiche e consecutive dell'Universo, dal piano soggettivo al piano oggettivo dell'esistenza, ad intervalli regolari di tempo, che abbracciano periodi d'immensa durata” e spiega: Come primo paragone ed aiuto per una concezione più corretta, prendiamo l'esempio dell'anno solare, e poi delle due metà di quest'anno, ciascuna delle quali consiste di un giorno ed una notte della durata di sei mesi al Polo Nord. Ora immaginate se potete, invece di un anno solare di 365 giorni – l'ETERNITÀ; il Sole rappresenti l'universo ed i giorni e le notti polari di sei mesi ciascuna – giorni e notti che, invece di 182 giorni ognuna, durino 182 trilioni e quadrilioni di anni. Come il Sole sorge ogni mattina sul nostro orizzonte oggettivo uscendo dallo spazio posto agli antipodi e soggettivo (per noi), così l'Universo emerge periodicamente sul piano oggettivo da quello soggettivo che sta ai nostri antipodi. Tale è il “Ciclo della Vita”. E come il Sole scompare dal nostro orizzonte, così l'Universo scompare a periodi regolari, allorché sopravviene la “Notte Universale”. Gli Indù chiamano questo alternarsi i “Giorni e le Notti di Brama”, oppure Manvantara e Pralaya (dissolvimento). Gli occidentali, se lo preferiscono, possono chiamarli i “Giorni e le Notti Universali”. Durante queste ultime (le Notti), Tutto è in Tutto; ogni atomo si è risolto nell'omogeneità una”[10]. Nella tradizione zoroastriana il ciclo del tempo è una curvatura nell'eternità che permette al bene, impersonificato da Ôhrmazd, di circoscrivere l'azione del male, impersonato da Ahriman, in siffatta guisa superandola[11]. Così ci si esprime nel Bundahishn ovvero della primordiale creazione: Poi Ôhrmazd con la sua onniscienza conobbe: “Se non determinerò il tempo della sua lotta, egli potrà lottare e mescolarsi alla mia creazione eternamente, e allora egli potrà stabilirsi nella mescolanza della creazione e appropriarsene”. Ancor oggi ci sono infatti fra le creature molti uomini che esercitano più la colpa che la rettitudine e cioè indulgono più di tutto alla volontà dello Spirito Malvagio. E disse Ôhrmazd allo Spirito Malvagio: “Stabilisci un tempo, affinché io, secondo questo patto, possa per novemila anni condurre la lotta contro di te”, poiché sapeva che, prendendosi quel periodo di tempo avrebbe reso innocuo lo Spirito Malvagio. Allora questi, per impotenza a vedere la fine del tutto, acettò questo periodo di tempo, così come due uomini stabiliscono il tempo della tenzone dicendo: “Mettiamoci oggi d'accordo per iniziare la lotta la prossima notte”. Ôhrmazd sapeva, con la sua onnoscienza, che di questi novemila anni, dapprima per tremila anni sarebbe valso in tutto il potere di Ôhrmazd, poi per tremila anni, nel periodo della Mescolanza, sarebbe valso ugualmente il potere sia di Ôhrmazd che di Ahriman, indi, nell'estrema lotta, avrebbe potuto rendere impotente lo Spirito Malvagio e lo avrebbe trattenuto dall'avversare le creature. Poi Ôhrmazd creò l'ahuvar, pronunciando le strofe yathâhûvairyôk di ventun parole[12]. Allora mostrò allo Spirito Malvagio la sua vittoria finale, la riduzione all'impotenza dello Spirito Malvagio, la distruzione dei dèmoni, la Resurrezione, il Corpo Futuro e la Liberazione delle creature dal male, in eterno. Lo Spirito Malvagio quando vide la riduzione di se stesso all'impotenza, e l'annientamento dei dèmoni tutti, crollò privo di conoscenza e di nuovo precipitò nelle tenebre, così come si dice nella religione rivelata: “Quando ne fu detto un terzo[13], per il terrore si dileguò la forza dello Spirito Malvagio; quando ne furono recitati due terzi lo Spirito Malvagio cade in ginocchio; quando fu recitata tutta, egli divenne impotente”. Lo Spirito Malvagio dunque, impotente a far del male alle creature di Ôhrmazd, giacque, abbattuto, tremila anni[14]. Come osserva George Ivanovitch Gurdjieff: “Presi isolatamente, l'esistenza di una cosa o di un fenomeno che si esamina è il cerchio chiuso di un processo di un eterno ritorno che si svolge senza interruzione. Il cerchio stesso è il simbolo di questo processo. L'insieme del simbolo è do, in quanto questo do ha un esistenza regolare e compiuta. È un cerchio, un cerchio finito. È lo zero del nostro sistema decimale: Per la sua stessa forma, rappresenta un ciclo chiuso. Esso contiene in sé stesso tutto quello che è necessario alla sua esistenza. È isolato da quanto lo circonda”[15].Collegando la vicenda umana all'eterno ritorno, Peter Demianovich Ouspensky preferisce un concetto di ricorrenza a quello di reincarnazione: “L'idea di ricorrenza richiede due dimensioni di tempo (...) Se accettiamo che la linea di tempo è curva, allora la curva ha due dimensioni, di conseguenza ci sono due dimensioni di tempo (...) Se [l'uomo] ha [maturato] qualcosa di permanente, può sopravvivere. Ma secondo me è più importante esaminare questo problema in rapporto all'eternità (...) considerarlo in rapporto all'eternità significa che c'è ripetizione. La vita deve essere ripetuta, non ci può essere soltanto una vita. Cercate di comprendere il disegno della vita. Non potete comprenderlo se lo pensate come una linea retta, e se lo pensate come circoli vi accorgerete che il vostro cervello non può accettarlo. Tutto ciò che vive – vita organica, individui, ecc. - vive e muore e, in qualche misteriosa maniera che non comprendiamo, questo crea dei circoli; questi circoli sono collegati con altri circoli e l'intero disegno della vita ne è il risultato. Ogni cosa, ogni piccola unità, continua a girare nel suo circolo, perché ogni cosa deve continuare ad esistere. Se apparisse un intervallo, l'intera struttura sarebbe distrutta”[16].Sul punto si può notare come, nella ricerca psichica dei primi del novecento, l'“eterno presente” venga descritto quale una quarta dimensione temporale, percepibile solo eccezionalmente da speciali soggetti. Ciò per dar conto dei fenomeni di chiaroveggenza nel futuro, sotto forma di premonizione o profezia, e superare la disputa tradizionale fra determinismo e libero arbitrio sollevata dal fenomeno stesso, esattamente come l'esistenza di una quarta dimensione spaziale sarebbe rilevata da fenomeni detti di psicometria o criptestesia pragmatica, in cui il chiaroveggente si pone in contatto con un oggetto di provenienza a lui sconosciuta, dando ampie descrizioni sullo stesso, le persone e l'ambiente in relazione col medesimo, attraverso una presa di contatto temporanea con questa quarta dimensione[17]. La quarta dimensione temporale e spaziale, peraltro, appaiono identificarsi tra loro in alcune esperienze di chiaroveggenza, come quelle nelle quali C. Leadbeater descrive la collocazione temporale e spaziale di Atlantide.

L'Eternità

           Peter Demianovich Ouspensky esamina questo problema in rapporto all'eternità. Il rapporto fra il tempo e l'eternità presuppone, però, che esse siano due dimensioni diverse. Nel riportare il brano suddetto abbiamo saltato un’espressione. Tolto quell'omissis parte di quella frase suona così: “L'idea di ricorrenza richiede due dimensioni di tempo. La necessità di tre dimensioni di tempo viene soltanto con l'idea di lavoro”[18]. Quell'idea di lavoro si riferisce al lavoro spirituale, e quella terza non è una dimensione del tempo, ma un'altra dimensione rispetto al tempo: l'Eternità. Già Parmenide aveva rilevato quanto fosse equivoco considerare l'eternità mera infinita estensione del tempo, e la considerava un νΰν, un puro presente senza passato né futuro, e non un 'αεί, il sempre, somma di passato, presente e futuro, quale anche la considerò Melisso, pur suo allievo. È merito dei teosofi neoplatonici della scuola eclettica, allievi d'Ammonio Sacca, in particolare di Plotino e di Procolo, aver chiarito la dimensione dell'Eternità come totale e permanente presenza dell'ente a sé medesimo, che esclude ogni principio ed ogni fine, in quella che Boezio definirà interminabilis vitæ tota simul et perfecta possessio[19]. Dimensione in cui l'ente trascende il tempo, presenza assoluta dello Spirito come soggetto trascendente, secondo la sintesi che Giovanni Gentile[20] trarrà da Friederich Wilhelm Joseph Schelling ed Georg Wilhelm Hegel. Per questo George Ivanovitch Gurdjieff rispose a Peter Demianovich Ouspensky: Che cosa può servire a un uomo la verità sull'“eterno ritorno”, se non ne è cosciente e non cambia? Si può persino dire che se un uomo non cambia, per lui la ripetizione non esiste. Se si parla della ripetizione, questo non farà che aumentare il suo sonno. Perchè dovrebbe fare degli sforzi oggi, se ha ancora tanto tempo e tante possibilità davanti a sé, l'eternità intera? Perchè dovrebbe pensare oggi? Ecco la ragione precisa per la quale l'insegnamento non dice niente sulla ripetizione e considera solamente la vita che noi conosciamo. L'insegnamento non ha nessuna portata, nessun senso, se non la lotta per ottenere un cambiamento in sé stessi. Il lavoro al fine di cambiare se stessi deve cominciare oggi, immediatamente. Una vita è sufficiente per raggiungere la visione di tutte le leggi. Un sapere relativo alla ripetizione delle vite non potrebbe portare a nulla ad un uomo che non vede come tutte le cose si ripetono in una vita, cioè in questa vita, e che non lotti per cambiare sé stesso allo scopo di fuggire a queste ripetizioni[21]. È per liberarsi da questo ciclo ripetitivo ed acquisire quella simul et perfecta possessio, totale e permanente presenza di sé, che permetta di trascendere la dimensione del tempo, che taluno, operativamente, come George Ivanovitch Gurdjieff, prende in considerazione la sola vita presente e la dimensione trascendente dell'Eternità. Infatti: Il lavoro al fine di cambiare se stessi deve cominciare oggi, immediatamente. Una vita è sufficiente per raggiungere la visione di tutte le leggi. Del resto, anche le scuole in cui si riflette sull'esperienza della reincarnazione, come nello spiritismo sistematico di Allan Kardec[22], lo spirito torna ad incarnarsi in un corpo fisico solo in quanto necessiti d'ulteriori esperienze per evolvere, soltanto sinchè non abbia raggiunto quello stato di compiuta coscienza sufficiente da rompere il cerchio e raggiungere la dimensione dell'eterno. Per questo alcune scuole osano “forzare” l'evoluzione

         Annie Besant, sulle posizioni di diverse religioni in merito, ha scritto: In India, come in Egitto, la Rincarnazione era alla base della morale. Fra gli Ebrei essa era generalmente professata dai Farisei[23]; questa credenza popolare risulta in parecchie frasi del Nuovo Testamento: per esempio quando Giovanni Battista è considerato come la rincarnazione di Elia[24], o come quando i discepoli domandano se il cieco nato soffra per il peccato dei suoi genitori o per qualche suo proprio peccato precedente[25]. Inoltre lo Zohar parla delle anime come soggette a trasmigrazione: “Tutte le anime sono soggette a evoluzione (Metempsicosi, a' leen b' gilgoolah), ma gli uomini non conoscono le vie del Santissimo, che sia benedetto!; essi sono ignoranti del modo in cui furono giudicati in tutti i tempi, e prima di venire in questo mondo e quando lo hanno lasciato[26]”. Il Kether Malkuth ha evidentemente la stessa idea, come quella espressa da Giuseppe, quando dice: “Se essa (l'anima) sarà pura, otterrà la grazia e la letizia nell'ultimo giorno, ma se sarà macchiata essa peregrinerà per qualche tempo nel dolore e nella disperazione[27]”. Così pure troviamo questa dottrina insegnata da eminenti Padri della Chiesa; Ruffino[28]dice che la credenza di essa era comune fra i primi Padri. È superfluo dire che i filosofi gnostici ed i neo-platonici la ritenevano parte integrale della loro dottrina. Se noi guardiamo l'emisfero occidentale, troviamo la Rincarnazione come credenza fermamente radicata in molte tribù dell'America settentrionale e meridionale. I Mayas, colla loro interessantissima affinità di lingua e di simbolismo coll'antico Egitto, mantengono ancora ai nostri giorni la dottrina tradizionale, come è dimostrato dalle ricerche del Dr. e della Signora Le Plongeon. A questi si potrebbero aggiungere i nomi di molte altre tribù, resti di nazioni una volta famose; nella loro decadenza esse conservarono le credenze avite che una volta le univano ai più potenti popoli del mondo antico[29]. Annie Besant riflette, peraltro, una posizione comune a tutti i teosofi del XIX secolo dell'êra volgare nel censurare il rifiuto, da parte dell'ortodossia cristiana, di qualunque accenno al ciclo delle reincarnazioni: Nei primi tempi in cui il Cristianesimo si diffuse in Europa, l'intimo pensiero dei suoi capi era profondamente compenetrato di questa verità. La Chiesa tentò, senza risultato, di sradicarla...”[30]. Non v'è, in realtà, all'inizio della rinascita teosofica, un esame critico dei motivi che sostanno alle posizioni cristiane sulla vita e sul suo senso. Il punto di vista dell'ortodossia cristiana viene fissato, nel IV secolo della sua êra, da Enea di Gaza, scrittore greco, maestro della scuola di retorica di quella città. Il suo dialogo Teofrasto ha per oggetto proprio la preesistenza e trasmigrazione delle anime. L'elemento forte, basilare dell'opera non è quella debole confutazione della preesistenza, fondata sulla mancanza di memoria sullo stato anteriore all'incarnazione, sulla quale spesso la critica insiste, sibbene una considerazione etica, di tipo teleologico operativo: Enea di Gaza non vede nelle successive incarnazioni delle esperienze attraverso le quali espiare colpe passate, a perfezionamento dell'ego, quanto piuttosto nuove occasioni di errore, in grado di aviluppare la consapevolezza in un circolo vizioso. Per questo egli propugna una dottrina cristiana che concepisca la vita corporea attuale come la prova definitiva per l'anima che, qui ed ora, deve raggiungere la propria santificazione in Eterno. Attraverso il Teofrasto di Enea di Gaza il Cristianesimo ci appare come un Mistero, in cui il culto pubblico, come scuola di ripetizione, per mezzo del simbolo e del rito, che proprio allora riceveva forma definitiva nella Divina Liturgia di Giovanni Crisostomo, accede all'iniziazione individuale come cristallizzazione della presenza di sé, attraverso strumenti potenti quali i sacramenti, e la preghiera del Nome, coi quali l'ego deve forzarsi a divenire eterno presente in sé.


[1]    W. Winwood Reade, The Veil of Isis or Mysteries of the Druids, Inghilterra 1861, trad. it. I Misteri dei Druidi, Bologna 2003

[2]    Ibidem, trad. it. pag. 32. Per una trattazione esaustiva Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia – Spiritualità celtica nell'Europa druidica, Milano 2001, Capitolo V.

[3]    A. BESANT, Rincarnazione, Trad. it. Firenze 1932, pag.12

[4]    H.P. BLAVATSKY, La chiave della Teosofia, Cap.V, trad. it. Trieste 1989, pag.56

[5]    Ibidem, Cap. VI, trad. it. nota 1 pag.68

[6]    ibidem, pag.67 Annie

[7]    cfr. P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Cap. II, trad. it. Roma 1976, pag. 39

[8]    A. Besant, op. cit., pag. 14 a 18

[9]    Ibidem, pag. 19 e 20

[10]  H.P. Blavatsky, op. cit., cap. VI, trad. it. pag. 61

[11]  cfr. Alessandro Bausani nell'Introduzione a Testi religiosi zoroastriani, Catania 1961

[12]  Alessandro Bausani spiega in nota: «È una delle strofe dell'Avesta più sacre, alla quale, come qui chiaramente si vede, si attribuisce una potenza magica sia nel mondo trascendente che in quello immanente. Ahuvar è abbreviazione e costruzione pahlavica dell'avestico Ahuna Vairya, cioè “la preziosa (preghiera) che contiene la parola ahû”. Le prime tre parole di detta strofe (che potrebbe chiamarsi, per il suo frequente uso liturgico, il Paternoster dei zoroastriani) sono appunto yathâ ahû vairyô (“Come il migliore Signore”) e l'intera formula, tradotta, suona come segue:“Come il migliore Signore così il migliore Giudice è egli (Zarathushtra) secondo la Santa Legge, che porta del Buon Pensiero le opere vitali a Mazdâ e, così, sovrana potenza ad Ahura; colui che fu stabilito a pastore dei poveri»In Testi religiosi zoroastriani cit., pag.63

[13]  Annota Alessandro Bausani: «Un terzo della formula sopra detta (cioè, nella traduzione italiana qui dara, fino alla parola “Legge”)» Ibidem, pag. 64

[14]  Dal Bundahishn ovvero della primordiale creazione, pubblicato dal Bausani in Testi religiosi zoroastriani cit., pag.48 e 49

[15]  cfr. P. D. Ouspensky, op. cit., Cap. XIV, trad. it. cit. pag.320

[16]  P.D. Ouspensky, La quarta via, Cap. XVI, trad. it. Roma 1974, pag. 497 e 498

[17]  cfr. voce Psichica, Ricerca, in Enciclopedia Italiana, vol. XXXVIII, pag. 450, Roma 1935

[18]  op. cit. pag. 497

[19]  Consol., 1.6,§6

[20]  cfr. G. Gentile,Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), Firenze 2003, Parte IX, § 17.

[21]  P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Cap.XII, trad. it. cit., pag. 277 e 278

[22]  Al secolo Hippolyte Rivail, Lione, 3 Ottobre 1804 Parigi 31 Marzo 1869

[23]  Josephus, Antiq., XVII, I, §3

[24]  S. Matteo, XI, 14-15: «καί εί θέλετε δέξασθαι¸ αύτός 'εστιν 'Ηλίας, ό μέλλων 'έρχεσθαι. ό 'έχων ώτα άκουέτω.»; Vulgata di S. Gerolamo: «et, si vultis recípere, ipse est Elías qui ventúrus est. Qui habet aures audiéndi áudieat»; Trad. it. Niccolò Tommaseo: «E se volete ricevere, questi è l'Elia ch'ha a venire. Chi ha orecchi a udire, oda».

           XVII, 10-13: «καί 'επηρώτησαν αύτόν οί μαθηταί λέγοντες, Τί ούν οί γραμματεϊς λέγουσιν 'ότι 'Ηλίαν δεϊ 'ελθεϊν πρώτον; ό δέ 'αποκριθείς είπεν, 'Ηλίας μέν 'έρχεται καί 'αποκαταστήσει πάντα˙ λέγω δέ ύμϊν 'ότι 'Ήλίας 'ήδη ήλθεν, καί ούκ 'επέγνωσαν·αύτόν 'αλλά 'εποίησαν 'εν αύτώ 'ηθέλησαν˙ οϋτως καί ό υίός τοΰ 'ανθρώπου μέλλει πάσχειν ύπ' αύτών. τότε συνήκαν· οί μαθηταί 'ότι·περί Ίωάννου τοϋ βαπτιστοϋ είπεν αύτοϊς.» Vulgata di S. Gerolamo: «Et interrogavérunt eum discípuli dicéntes: Quid ergo scribæ dicunt quod Elíam opórteat primum veníre? At ille respóndens ait eis: Elías quidem ventúrus est et restítuet ómnia. Dico autem vobis, quia Elías jam venit, et non cognovérunt eum, sed fecérunt in eo quæcúmque voluérunt. Sic et Fílius hóminis passúrus est ab eis. Tunc intellexérunt discípuli quia de Joánne Baptísta dixísset eis». Trad. it. Niccolò Tommaseo: «E lo addimandarono i discepoli suoi, dicendo: - Or che dicono gli Scribi ch'Elia ha a venire prima? - E Gesú rispondendo disse: - Elia ben viene prima; e ristabilirà ogni cosa. - Or dico a voi ch'Elia è già venuto, e non lo riconobbero, ma fecero in esso quel che mai vollero. Cosí anche il Figliuolo dell'uomo ha a patire da loro -. Allora compresero i discepoli che di Giovanni il Battista disse loro.»

[25]  S. Giovanni  IX, 2: «καί 'ηρώτησαν αύτόν οί μαθηταί αύτοϋ λέγοντες 'Ραββί, τίς 'ήμαρεν, ούτος ή οί γονεϊς αύτοϋ, 'ίνα τυφλός γεννηθή»; Vulgata di S. Gerolamo: «Et interrogavérunt eum discípuli ejus: Rabbi, quis peccávit, hic aut paréntes ejus, ut cæcus nascerétur?». Trad. It. Niccolò Tommaseo: «E domandarono i discepoli suoi, dicendo: - Maestro, chi peccò, questi, o i genitori di lui, perché cieco nascesse?»

[26]  Zohar II, fol.99 – Citato nella Cabbala di Myer, pag.198

[27]  Citato nella Cabbala di Myer, pag.198

[28]  Lettera ad Anastasio, citata da E.D. Walker in Reincarnation: a Study of Forgotten Truth

[29]  A. Besant, Rincarnazione, trad. it. cit., pag.3 a 5

[30]  ibidem, pag.6

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