Vivere nell’occhio del ciclone  

 di Joy Mills

Nel primo capitolo della “Bhagavadgita” il narratore Sanjaya descrive come doveva essere assordante e spaventoso il frastuono quando i due eserciti si preparavano alla battaglia.

Ecco le parole del testo: “Tamburi e corni squillavano all’improvviso e il rumore era fragoroso”. Sanjaya, continuando la descrizione della scena e dei rumori che l’accompagnavano, aggiungeva: “Tutto quel tumulto lacerava i cuori del figli di Dhrtarashtra, riempiendo la terra e il cielo di suono”.

La descrizione che ci viene data e così viva che quasi riusciamo a percepire con il nostro orecchio fisico la possente combinazione dei suoni e sentire dentro di noi il terrore del conflitto incombente.

Anche ai giorni nostri sembra che lo stesso tumulto di suoni ci assalga, sia letteralmente dalle pianure dell’Iraq o, in modo figurato, dai mercati economici commerciali del mondo.

         Le nuvole minacciose sono tutte sopra di noi e noi ci sentiamo timorosi e ansiosi come lo era Arjuna, tremanti e indecisi, confusi e sconcertati come quel rappresentante della condizione umana prima che le forze demoniache invadessero il mondo.

         Più di un secolo fa il poeta inglese Matthew Arnold ben descriveva questa condizione:

-         siamo qui come su una distesa oscura,

-         spazzata da minacce confuse di lotta,

-         e di battaglia,

-         dove eserciti inconsapevoli si scontrano nella notte.

Sebbene non sia mia intenzione intraprendere uno studio della Gita, un punto nel capitolo introduttivo di questo bellissimo libro merita la nostra attenzione poiché ci conduce direttamente alla mia attuale tesi. Arjuna, tremante di paura ai suoni e alla vista di ciò che lo assaliva, ordinò fermamente al suo cocchiere, il divino Krshna, di condurlo al centro del campo di battaglia, in mezzo ai due opposti schieramenti. “Il mio carro stia tra i due eserciti” disse. Invocando la presenza di Krshna per quell’azione, Arjuna si rivolse a lui come “Achyuta”, riconoscendo in lui l’immutabile centro interiore che Krshna rappresenta.

Perciò possiamo dire che il vero e urgente bisogno dei giorni nostri, per tutti noi presi dalla frenesia e dalla confusione della nostra attuale condizione, sia di spostarsi verso il centro e là posizionare il nostro carro, poiché soltanto dal centro possiamo osservare l’intero campo della nostra esistenza. Solamente quando il carro su cui ci troviamo, la nostra personalità, è condotto in un punto di quiete – cioè posto al centro – noi siamo nella posizione giusta per comprendere ciò che è corretto fare. Schierarci con l’una o l’altra posizione del conflitto che ci circonda, lasciandoci trasportare da venti della fortuna, affannandoci qui e là cercando soluzioni esterne, spinti o trascinati dal tumulto delle passioni, significa agire ciecamente e irrazionalmete – e certamente senza comprendere le profonde radici della crisi che ci affligge. Quando il mondo è in fiamme, quando tutta la sofferenza si fa sentire, si è portati verso il movimento e non verso la quiete. Non c’è tempo per osservare in modo tranquillo da un qualsiasi centro, seppur riusciamo a trovarne uno.

La tempesta infuria; dobbiamo agire!

Tuttavia, fermiamoci un momento. Sulla mensola sopra la mia scrivania c’è una bella statuetta in bronzo di Krshna ritratto nella sua tradizionale posizione, tutto il peso appoggiato con leggerezza su una gamba, l’altra incrociata davanti con le dita dei piedi che toccano il terreno. Sta suonando un delicatissimo strumento, il flauto, il cui suono a fatica riesce a placare il rumore dei tamburi e dei corni. Sul suo volto un’espressione di assoluta tranquillità, di pace indescrivibile. Rivela – così mi sembra – un senso di azione nella non–azione stessa. Al di sopra del tumulto e della furia della tempesta, c’è la pura, dolce musica del flauto che placa il clamore del mondo.

Qual è l’insegnamento dato dalla statuetta di Krshna? E qual è il significato della necessità di Arjuna di spostarsi verso il centro, tra i due eserciti nemici pronti per la battaglia? Forse è ora che noi consideriamo l’importanza di collocarci al centro del nostro essere, dove il carro che cavalchiamo ogni giorno – la personalità – possa essere fermato e tenuto in stato di quiete in modo che, almeno per un momento, possiamo ascoltare la voce dell’immutabile. Lì potremo trovare il segreto di ciò che è giusto – “il segreto regale” come è chiamato nella Gita – che il mondo intero cerca disperatamente. In quest’epoca così confusa, quando tutto ciò che sembrava sicuro viene spazzato via dalla furia della tempesta che ci sovrasta, possiamo ricordare che nell’occhio del ciclone c’è la quiete assoluta – passando dalla metafora della battaglia a quella del ciclone. Almeno in teoria il Teosofo appartiene a quel punto: al centro immobile e quieto. Possiamo così comprendere l’antico saggio Taoista che afferma: “Il valore dell’esistenza eppure la necessità di ricorrere alla non-esistenza”, per citare un’espressione paradossale che indica il tipo di azione che sgorga in modo naturale o spontaneo dalla non-azione del centro immutabile del nostro essere. Desidero citare una traduzione di quel bellissimo testo, Tao-Te-Ching (“La Luce che guida Lau Tzu” di Henry Wei):

“Trenta raggi convergono al mozzo della ruota:

E’ nello spazio vuoto (non essere)

Che risiede l’utilità della ruota.

L’argilla prende la forma di un’anfora:

E’ nel non essere

Che risiede l’utilità dell’anfora.

Porte e finestre sono tracciate per costruire una stanza:

E’ nel non essere

Che risiede l’utilità della stanza

Perciò, è vero che l’essere è prezioso,

Ma è il non essere che è utile”.

         E’ lecito domandarsi se questo significa che dobbiamo smettere di essere per diventare il nulla assoluto? Oppure questo conduce – come comprese Arjuna – ad un nuovo modo di essere nel quale l’azione ha origine da un centro di non-azione? Forse la più nobile forma di azione, l’azione giusta o vera, è “paradossalmente” non tanto l’azione stessa quanto la semplice presenza. Nuovamente, per citare il Tao:

         “Ritornare alla radice significa

Uno stato di quiete,

Quiete significa rinnovare la vita”.

         Così parlò Lao Tzu a proposito del prerequisito essenziale per una vita significativa: “Mantenere il nostro intero essere in uno stato di quiete”. E’ quella quiete così perfettamente rappresentata nella mia statuetta di Krishna, una quiete veramente necessaria ad Arjuna per ascoltare l’insegnamento datogli dal suo auriga, quella quiete così ben espressa da Re David il Salmista, nell’assoluta semplicità della sua preghiera: “Nello stato di perfetta quiete troverai Dio”. Il poeta T. S. Eliot parlò di quella quiete come del “punto fermo in un mondo in eterno movimento”. Il poeta mistico irlandese AE lo descrisse come quel “centro dentro di noi attraverso il quale passano tutte le linee dell’universo”, un centro perfettamente immobile eppure specchio di tutte le cose.

         E’ fin troppo facile essere impetuosi nell’azione, fin troppo facile buttarsi a capofitto seguendo l’impeto della passione e agire perché ci sta a cuore il nostro prossimo. Possiamo perfino sentirci colpevoli se indulgiamo troppo a lungo mentre le persone intorno a noi sono impegnate in molteplici attività umanitarie. In particolar modo, come Teosofi, possiamo sentirci un po’ rimordere la coscienza quando ci viene chiesto, come spesso succede: “Che cosa fai per lenire le sofferenze di coloro che sono in difficoltà”? Allora, per mettere a tacere la nostra coscienza, indichiamo le numerose attività dell’Ordine Teosofico di Servizio oppure il lavoro svolto individualmente in numerosi campi.

         Ora, non sto dicendo che noi non facciamo nulla, o che lo star seduti in continua contemplazione sia preferibile alle buone azioni disinteressate. Certamente nessuno ci consiglia di voltare le spalle alle azioni che possono beneficiare gli altri (inclusi i nostri “fratelli minori” appartenenti al regno animale e vegetale). Piuttosto, si può dire che la filosofia teosofica aggiunga qualcosa al significato dell’azione perché indica esattamente un modo di stare nel mondo che può essere definito come servizio attraverso la propria presenza. Cioè, la presenza stessa dell’uomo nel mondo agisce in modo da trasformare il mondo stesso, oppure aiutare la trasformazione delle coscienze che è l’unica soluzione a tutti i problemi dell’umanità. Una vita così, è una vita vissuta al centro, o a partire dal centro, nell’occhio del ciclone. Questo centro, allora, irradia pace, amore, compassione e comprensione. La moderna psicologia riconosce che intere masse di persone possono essere trascinate in un vortice di problemi interiori o esteriori da una sola potente figura carismatica.

         La storia annovera simili individui che, con il loro impeto e la loro passione, hanno saputo coinvolgere le folle: Genghis Khan, Rasputin, Hitler, la lista è pressochè infinita. Di conseguenza anche la psicologia riconosce l’influenza di un individuo ordinato, colui che, dotato di equilibrio e armonia interiore, crea un centro di pace attorno a sé. La storia offre molti esempi di “uomini grandi”, il cui valore consiste semplicemente nel loro essere presenti nel mondo: da Krishna a Cristo, i santi e i sapienti, i saggi e gli illuminati (i Buddha) i quali, da tempo lontanissimo, sollecitano l’umanità a trovare quel centro dove dimorare stabilmente.

         Si racconta una storia antica di due uomini che stavano arando i loro campi, storia che ben illustra la mia tesi. Il terreno era sassoso e l’annata poco favorevole poiché la pioggia scarseggiava e il fiume da cui proveniva l’acqua per l’irrigazione dei campi era asciutto. Mentre aravano, l’espressione del volto di uno dei due uomini si irrigidì e i suoi occhi divennero gelidi. Pensava soltanto alla durezza della sua vita, al dolore che provava alle gambe e ai piedi. Rimproverava il suo povero cavallo affamato di non procedere abbastanza velocemente. Osservando l’altro contadino, si convinse che il suo cavallo era più agile del proprio, che il suo raccolto sarebbe stato più abbondante e il suo campo più facile da coltivare. Nel frattempo il suo vicino lavorava con un ritmo regolare, concentrandosi su come direzionare l’aratro, fermandosi di tanto in tanto per far riposare la sua cavalla. Appariva tranquillo e sereno, poco affaticato. Mentre il sole diveniva sempre più caldo, il primo contadino frustava sempre di più il suo cavallo, il sudore colava lungo il suo volto e gli riempiva gli occhi da impedirgli quasi di vedere; le vene delle mani spiccavano mente lui afferrava l’impugnatura dell’aratro. Riusciva soltanto a pensare che il suo vicino si prendesse gioco di lui, procedendo nel suo lavoro in modo così pacato e dimostrando sul suo volto un’espressione di calma. La sua rabbia crebbe al punto tale che nella sua mente non ripeteva altro che questo pensiero: “Se solo avessi il suo cavallo potrei arare il campo più velocemente…. Se avessi il suo campo non dovrei spingere così forte l’aratro”. Infine, disperato, gettò via l’aratro, raccolse la pietra più grande che trovò e con un grido rabbioso corse verso il suo vicino. Il giorno seguente, il secondo contadino stava nuovamente arando il suo campo utilizzando, però, due cavalli. Procedeva più lentamente poiché si sentiva triste e meravigliato dal ricordo degli avvenimenti del giorno precedente quando, spaventato da un urlo improvviso, vide il suo vicino correre selvaggiamente verso di lui con l’intento di scagliargli una grossa pietra che teneva nella mano. Prima di avere il tempo di reagire, vide il suo vicino cadere a terra, privo di vita, stringendo ancora la grossa pietra che teneva nella mano. Finchè visse non fu mai in grado di capire che cosa fosse passato nella mente del suo vicino, né che cosa avesse scatenato quella violenza improvvisa.

         Sia la collera che la pace sono caratteristiche individuali generate in luoghi segreti della mente e del cuore. Non basta dire che i due uomini di questo antico racconto avevano due stati d’animo differenti. Certamente la differenza tra i due sta ad un livello più profondo, e si fa strada verso la consapevolezza partendo da un centro che è comune a tutti gli uomini. Nel primo caso il processo verso la consapevolezza è avvenuto attraverso una mente focalizzata unicamente sull’interesse personale, l’invidia, la cupidigia; nell’altro caso invece la mente era calma e piena di propositi, rispettosa dell’animale, della terra e del lavoro da compiere.

         Ci possiamo dunque domandare se sia possibile coltivare i valori che emergono da quel centro profondo, in modo tale da permettere di diventare una presenza di pace nel mondo, una presenza che irradia calma e incoraggia la creatività dello spirito.

         E’ possibile liberare la nostra psiche da tutto ciò che produce conflitto e violenza, permettendo un libero fluire dell’energia dal nostro centro interiore, quel centro che si può dire comune a tutti, eppure unico per ciascuno di noi, sempre originale nel suo modo di rivelarsi di volta in volta? L’Atman – se così vogliamo chiamare questo centro – in verità è universale e dunque comune a tutti; tuttavia in ciascun individuo si rivela la sua unicità.

         Tutti i testi antichi ci confermano che la liberazione della nostra natura psicologica è possibile. Tale processo è spiegato sia nei testi dello Yoga che in quelli mistici, in tutte le tradizioni religiose e nei sistemi della moderna psicologia che mettono in rilievo l’individualismo, l’autorealizzazione e la trasformazione da un livello transpersonale. In quella bellissima opera di H.P. Blavatsky che è “La Voce del Silenzio”, il processo di liberazione che conduce a quel tipo di illuminazione in cui l’individuo diventa non solo autorealizzato ma autenticamente capace di dare luce al mondo, è chiamato: “il sentiero delle Paramita”, usando la terminologia buddhista che descrive le sette porte attraverso le quali l’aspirante deve passare nel suo cammino verso il centro.

         Le Paramita, anche chiamate “virtù trascendentali”, sono qualità dell’essere che vive in quel centro di cui abbiamo parlato. Esse sono presenti in quello spazio interiore che può essere definito “l’occhio” delle nostre personali tempeste esteriori, e quando noi entriamo in quello spazio interno – in quel centro, quell’occhio – i disordini esteriori cessano, il sole del nostro essere irrompe e disperde le nuvole più oscure e minacciose. Tutti i testi Buddhisti Mahayana elencano le sei o dieci “Paramita”, “Virtù” o “Perfezioni” che devono essere praticate sul Sentiero del Bodhisattva, il sentiero della compassione.

         H.P. Blavatsky ne elenca sette, chiamandole le chiavi d’oro che aprono “i portali sullo spinoso cammino verso Jnana” o Saggezza. Ecco le “eccellenti virtù” descritte ne: “La Voce del Silenzio”.

         Dana, la chiave della carità e dell’amore immortale;

         Sila, la chiave dell’armonia nella parola e nell’azione, che bilancia la causa e l’effetto e non lascia più alcuno spazio per l’azione Karmica;

         Kshânti, la dolce pazienza che nulla può turbare;

         Virâga, l’indifferenza verso il piacere e il dolore, percezione della verità al di là dell’illusione;

Virya, l’intrepida energia che combatte per raggiungere la verità suprema al di là delle illusioni materiali;

Dhyâna che, una volta aperto il suo cancello dorato, conduce il Naljor verso il regno dell’eterno;

Sat, verso la contemplazione continua;

Prajna, la chiave che fa dell’uomo un dio, rendendolo un Bodhisattva, figlio dei Dhyani.

Sono già stati scritti numerosi testi a commento di queste sublimi qualità, tuttavia possiamo avvicinarci ancora a questo argomento considerando come esse ci permettono di liberarci dai quattro principali vincoli che affliggono la nostra natura – legami che originano le nostre tempeste personali. Attraverso la pratica di queste nobili virtù possiamo avviare il processo di scioglimento dei nodi che ci trattengono e liberare la nostra natura dalla confusione e dal caos che caratterizzano il mondo contemporaneo. Tutto sommato le Paramita rappresentano uno stile di vita a partire dal centro. L’Umanità di oggi (e come individui anche noi siamo coinvolti) sembra essere dominata dall’avidità e dalle passioni, dall’attaccamento alla ricchezza o alla posizione, al potere, ai beni materiali. Questa è la principale catena che ci tiene avvinghiati nella rete dell’egocentrismo, del puro interesse personale. Solo la piena consapevolezza che la vita è una indivisibile, il che significa Prajña o Saggezza, può liberarci dal senso di sentirci separati dagli altri che genera avidità e desiderio di affermazione personale. E con quella consapevolezza sorge spontaneamente e naturalmente una vera carità di spirito, Dâna, un vero e proprio dare a beneficio di tutto ciò che vive. Questo è l’atteggiamento presente in una delle Upanishads: “Non per amore del marito, il marito è caro, ma per l’amore di Sé”. “Non per amore della moglie, la moglie è cara, ma per l’amore di Sé”. E il testo prosegue con altre relazioni di parentela; tutto ci è caro solo per “l’amore di Sé”, l’Unico Sé che è al centro di tutti gli esseri. Così che noi apprendiamo ad agire in uno spirito di vera universalità, con la consapevolezza dell’unità; ogni pensiero, sentimento o azione dunque si basa su questa consapevolezza ed è quindi pervaso di amore e di apprezzamento per la preziosità della vita. Ogni azione non contaminata dall’interesse personale scaturisce dalla non-azione al centro del nostro essere.

La seconda grande afflizione che ci lega e ci ostacola, generando dolore e infelicità nei momenti tumultuosi della nostra esistenza, sono le antipatie, le gelosie, le ostilità, le nostre preferenze e le nostre avversioni che sorgono da quel senso di Io separato. E’ quel malessere universale che avvelena così tante relazioni umane, radicate ancora una volta nel nostro egocentrismo e nella nostra incapacità di riconoscere la realtà della Vita Una. Continuando a nutrire il nostro personale interesse, non vediamo come agire seguendo le leggi universali della Natura, agire con armonia e cooperazione piuttosto che con uno spirito di opposizione e resistenza.

L’intima contemplazione della Vita Una, Dhyana, ci porta a conoscere che esiste una sola legge, che è la “Chiave dell’armonia sia nella parola che nell’azione”, Sila.

Il nostro comportamento, dunque, è profondamente radicato nella grande legge della casualità, il Karma, e noi agiamo sempre a partire da quel centro interiore di quiete con una serena percazione spirituale. Nascosto sotto le nostre propensioni e desideri, sotto le nostre avversioni e simpatie, giace il terzo grande vincolo, l’illusione che nasce dal non sapere chi siamo veramente, dall’incapacità di distinguere l’apparenza dalla realtà, di discriminare il reale dall’irreale, il vero dal falso. Proprio come Dana e Prajña, come Sila e Dhyana formano coppie complementari, allo stesso modo nel liberarci da questo terzo vincolo, le due virtù Kshanti e Virya possono essere correlate tra loro. L’essenza della pazienza, della forza d’animo e della quiete, che è Kshanti necessita dell’intrepida energia di Virya per essere messa costantemente in pratica. E’ Kshanti che infonde coraggio al cuore vacillante dell’aspirante e colui che la possiede andrà incontro a tutte le tentazioni e ai fallimenti e le delusioni con una fiducia che nasce da una volontà ferma e serena, con un animo coraggioso, il che rappresenta il vero Virya. Infatti Virya è la capacità di decisione, propositiva e finalizzata, la stabilità del cuore e della mente che conduce l’individuo al successo finale. Una persona con queste caratteristiche sa con certezza che “ogni fallimento è un successo e ogni sincero tentativo otterrà la sua ricompensa, un giorno”, per citare “La voce del Silenzio”.

Così noi impariamo a trascendere i vincoli generati dall’illusione per entrare nel dominio della luce, al centro, dove l’ignoranza non esiste più, dove l’ansia per il futuro e il rimpianto per il passato non ci assalgono più.

Tutti noi soffriamo per un insaziabile bisogno di ottenere di più per noi stessi, sia che si tratti di possesso materiale che di capacità intellettive o di qualità spirituali. E’ un desiderio che sembra persino “divorare gli altri” nella nostra continua ricerca per ottenere quacosa di più, anche se talvolta neppure noi sappiamo definire quel “qualcosa in più” che desideriamo ardentemente ottenere.

La ricerca stessa inevitabilmente ci tiene vincolati sempre più al senso del nostro “Io personale”.

Così ondeggiamo tra gli opposti poli del piacere e del dolore, rincorrendo l’uno e cercando di evitare l’altro, contiunuamente imprigionati nel vortice del desiderio e del rifiuto. Questo quarto vincolo può essere allentato quando iniziamo a mettere in pratica quell’unica virtù che è la chiave della porta mediana, “la porta dell’equilibrio”, Viraga.

Mentre H. P. B. la definisce come “indifferenza al piacere e al dolore”, forse la si potrebbe meglio definire come tranquillità d’animo, uno stato d’animo equilibrato verso ogni avvenimento che la vita ci riserva. E’ un equilibrio interiore che si trova unicamente se viviamo nel centro, dove il Sé è Uno, piuttosto che nel vortice delle passioni e dei desideri personali. Qui, nel centro, c’è libertà per colui che riesce a considerare allo stesso modo gioia e dolore.

Vivere nel centro, vivere nell’occhio del ciclone dove c’è la pace assoluta, e attraverso la propria presenza nel mondo diventare un punto irradiante di luce: certamente questo è l’ideale, sebbene la sua completa realizzazione possa avvenire solo nel futuro. Pur procedendo a passi incerti, possiamo tuttavia intraprendere il sentiero delle Paramita e iniziare così a recidere i vincoli che ci tengono prigionieri dell’incauto senso della nostra personalità. Ecco come “La voce del Silenzio” esprime così magistralmente questo ideale e la possibilità di raggiungerlo: “Segui la ruota della vita; Segui la ruota del dovere nei confronti della tua razza e della tua famiglia, verso l’amico e il nemico … Se non puoi essere il sole che tu sia dunque un semplice pianeta … Sì, se non puoi splendere come il sole a mezzogiorno sulle montagne coperte di neve, pura ed eterna, allora scegli, o neofita, una via più umile … Indica la via – anche quando ti trovi come perduto tra la folla – e fai come la stella della sera che rischiara il cammino a chi percorre il sentiero nell’oscurità … Offri luce e conforto al viandante affaticato, e soccorri colui che conosce meno di te”.

Incominciare: ecco quello che è necessario, incominciare è l’unica cosa che ci viene richiesta. Scegliere di non incominciare perché ci sentiamo troppo oppressi dalle difficili condizioni del mondo, perché i nostri piccoli sforzi possano servire a qualcosa, può esporci non solo al fallimento ma al tradimento di tutto ciò che ci è stato dato. In verità “ogni fallimento è un successo e ogni sforzo sincero otterrà la sua ricompensa un giorno”.

Mentre contempliamo la nostra attuale posizione e le sfide che le tempeste che infuriano attorno a noi ci presentano, possiamo soffermarci un momento per considerare quell’unico movimento che è sempre possibile per chiunque di noi: il movimento verso l’interno, verso il centro dove regna la pace. Oppure, per usare un’altra immagine, consideriamo il delicato momento del sorgere del sole prima che le attività frenetiche del nuovo giorno inizino, come scrive la scrittrice inglese Jacquetta Hawkes, nel suo libro “La terra”.

Nella tranquillità più assoluta la terra gira attorno al suo asse a più di mille miglia all’ora, e attorno al sole a mille cento miglia al minuto; la terra, la stella del mattino e il sole ancora invisibile ruotano attorno all’asse galattico a mezzo milione di miglia all’ora.

Non una foglia né un filo d’erba si muovono. Solo il cinguettio degli uccelli rompe il silenzio dell’alba.

Spostarsi all’interno verso il nostro centro, ascoltare il cinguettio degli uccelli all’alba, raggiungere la pace che esiste solo al centro di noi stessi, nell’occhio del ciclone: questa è la strada che possiamo intraprendere per quel viaggio che conduce al cuore stesso dell’universo.

E da quel centro ci spostiamo nuovamente verso l’esterno ma questa volta per vivere in modo nuovo, portando nelle nostre azioni esteriori l’immobile silenzio del Sé immutabile e sempre presente. E’ come se la calma del sorgere del sole permeasse con la sua freschezza ogni ora delle nostre intense giornate.

“Se attraverso la Porta della saggezza, vuoi raggiungere la Valle della Beatitudine, o Discepolo, chiudi fermamente i tuoi sensi al madornale errore del sentirti separato da tutto il resto”.

La Voce del Silenzio

La signora Joy Mills è stata Vice Presidente della Società Teosofica e Presidente Nazionale della Sezione Americana e Australiana. Autrice di numerosi libri, ha tenuto conferenze e condotto seminari in molti paesi del mondo.

Traduzione di Laura Bessone Sarotto.

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