La natura della nostra libertà

  Di:Joy Mills

     “Se ben comprendo lo spirito di questa Società, essa è consacrata all’intrepido e coscienzioso studio della verità… Siamo… semplici investigatori, seri nello scopo e di mente imparziale, che studiano tutte le cose, che le verificano tutte e si attengono saldamente a ciò che è buono… Noi cerchiamo, investighiamo, non respingiamo niente senza un buon motivo, non accettiamo nessuna affermazione senza prima provarla; siamo studenti, non insegnanti”. Tali erano le parole di Henry Steel Olcott, Presidente-Fondatore della Società Teosofica, nel suo discorso di inaugurazione del 17 novembre 1875. Per quanto questo discorso si sia rivelato controverso, dato che ha suscitato rabbia e proteste sia da parte degli Spiritualisti che dei Cristiani Fondamentalisti, la nota della libertà da tutti i dogmi, fedi e dottrine codificate che propugna, ha caratterizzato la Società in tutto questo tempo, da quel giorno fatidico, più di cento anni fa.

     E come il Colonnello Olcott chiamò la Società Teosofica una “società di ricerca non condizionante” così i Presidenti successivi hanno più e più volte posto l’enfasi sull’ideale della libertà di pensiero, formalizzato come linea di condotta in una delibera adottata dal Consiglio Generale della Società e pubblicata regolarmente in The Theosophist tanto quanto, di frequente, nelle riviste di molte delle Sezioni di tutto il mondo. Nessuno ha formulato tale principio di libertà più chiaramente di colei che succedette al Colonnello Olcott, Annie Besant, in una conferenza tenuta poco dopo aver assunto la presidenza, nella quale affermò: “Alcuni dei nostri membri ripetono le affermazioni di un veggente o dell’altro e sembrano ritenere che tali asserzioni debbano por fine ad ogni ulteriore discussione. Ma nessuno nella Società Teosofica ha autorità per stabilire quello che la gente deve pensare o meno, su qualsivoglia argomento. Non siamo nella posizione di una qualche chiesa ortodossa, che ha determinati articoli di fede che impongono dei principi ben definiti, ai quali tutti i fedeli membri sono tenuti a credere. Il solo punto che dobbiamo accettare è la Fratellanza Universale e perfino a questo riguardo le nostre definizioni possono differire. Al di là di questo ciascuno è perfettamente libero di formarsi la sua opinione su qualsiasi argomento, e la ragione di tale condotta è chiara e molto buona. Nessuna opinione intellettuale è degna di essere considerata valida se non è ottenuta tramite lo sforzo individuale della persona che la sostiene” (Investigation into the Super-Physical, più tardi pubblicata come Adyar-Pamphlet nr. 36). Possiamo trovare affermazioni egualmente forti negli scritti e nei discorsi dei nostri ultimi Presidenti, che ribadiscono tale caratteristica distintiva della Società – il diritto di ogni membro a svolgere le sue ricerche e a formarsi una propria opinione e godere della piena libertà di pensiero su qualsivoglia argomento possa essere di suo personale interesse nella ricerca della verità.

     In una lettera piuttosto notevole ai membri della Loggia londinese, scritta in un momento in cui c’erano, nel gruppo, alcuni dissensi riguardanti l’elezione del Presidente, il Mahatma K.H. sottolineò l’importanza di un “armonioso progresso” nella Loggia, aggiungendo: “E’ un fatto universalmente accettato che il grande successo della Società Teosofica… sia dovuto interamente al suo principio di tolleranza saggia e rispettosa delle opinioni e dei credi di ciascuno. Nessuno, nemmeno il Presidente-Fondatore ha il diritto, direttamente o indirettamente, di interferire con la libertà di pensiero del membro più umile e men che meno di cercare di influenzarne l’opinione personale. E’ solo in mancanza di questa generosa considerazione che perfino la più leggera ombra di differenza arma i ricercatori di una stessa verità, altrimenti onesti e sinceri, con la frusta dell’odio dell’odio contro i loro fratelli, egualmente onesti e sinceri”. (Lettere dei Mahatma ad A.P. Sinnett, edizione cronologica, Lettera nr. 120).

     Possiamo qui aggiungere un interessante commento fatto dallo stesso Mahatma in una lettera precedente, nell’ordine cronologico, (vedi Lettera nr. 65). A proposito del fatto che solo il suo grande fratello, il Mahatma Morya, desiderava assisterlo nel lavoro di istruzione dei due inglesi, A.P. Sinnett e A.O. Hume, il Mahatma K.H. si riferisce a un’affermazione fatta dal “nostro Fratello greco semi-europeo” sulla conseguenza che gli inglesi potevano diventare “Zetetici” e qui abbiamo un riferimento all’antica scuola greca di filosofia, famosa per il suo scetticismo e dedita alla ricerca, una scuola che ebbe una specie di revival nell’Inghilterra del tardo XIX secolo, nella quale era conosciuta come Società Zetetica. Tra i membri di tale Società c’erano individui quali George Bernard Shaw e Sidney Webb, con i quali Annie Besant, naturalmente, aveva grande familiarità.

     Per una vera indagine e ricerca la libertà di pensiero è un sine qua non. Ma, possiamo ben chiedere, cosa significa veramente libertà di pensiero? E fino a che punto la nostra ricerca è davvero libera, libera oggi da tutte le cose ingombranti del passato, dai vari condizionamenti ai quali siamo stati soggetti? Forse nessuno ha avuto a che fare con la natura della libertà più profondamente e acutamente che Jiddu Krishnamurti. Ne La prima e ultima libertà egli ha scritto: “E’ capace la mente di essere libera dal credere? Potete essere liberi da questo solo quando capirete la natura intima delle cause che vi ci fanno aggrappare, non solo le cause conscie, ma anche quelle inconsce che vi fanno credere”.

     E in numerose occasioni egli ha parlato della “mente condizionata” quella mente formata dalle cose del passato, dalla paura e dall’ansia, dai molti fattori che distorcono la vera visione. Possiamo noi, egli chiederebbe, riconoscere lo stato della nostra mente? Possiamo capire che può essere catturata dal desiderio, da sensazioni di tutti i generi, che può lavorare in modo meccanico, così da essere refrattaria alle cose nuove? Come ha scritto in Libertà dal conosciuto: “La libertà è uno stato mentale – non libertà da qualcosa, ma un senso di libertà, libertà di mettere in dubbio e interrogarsi su tutto e perciò così intensa, attiva, vigorosa da affrancarsi da ogni forma di dipendenza, asservimento, conformismo e accettazione. La libertà può verificarsi solo in modo naturale, non desiderandola, volendola, sperandoci. E non la si troverà nemmeno creando un’immagine di quello che pensiamo essa sia. Per coglierla la mente deve imparare a guardare la vita, che è un movimento ampio, senza i legacci del tempo, poiché la libertà sta oltre il campo del conosciuto”.

     Come possiamo noi allora guardare la vita, osservarla e, come direbbero i buddhisti, essere consci di ogni suo movimento? E’ possibile liberare la mente dai suoi modelli di pensiero abituale e vedere in modo nuovo? Queste sono domande alle quali può rispondere solo l’individuo che desidera indagare, investigare profondamente ogni cosa che entri nel suo campo di attenzione. E’ utile, di tanto in tanto, esaminare quello che realmente sappiamo, cercando di analizzare quali possano essere le basi di tale conoscenza.

     Nel suo ultimo libro, Radical Knowing, Christian de Quincey, professore di studi sulla coscienza all’università John F. Kennedy della California, ha formulato l’ipotesi che noi veniamo al mondo equipaggiati di certe capacità innate. Egli le chiama i “quattro doni della conoscenza” che poi definisce come: il primo “il dono del filosofo” o “chiaro pensiero” o la via della ragione e della logica; il secondo “il dono dello scienziato” o “osservazione e metodo” o l’uso dei sensi; il terzo “il dono dello sciamano” o “sensazione incarnata” e, da ultimo, “il silenzio sacro, dono del mistico” o intuizione ed esperienza trascendente. A mano a mano che si considera ciascuno di questi “doni della conoscenza” è possibile scoprire quanto quello che noi crediamo e che sappiamo veramente può essere influenzato dalla ragione, dall’abile uso dei sensi in stato di osservazione, dalle nostre sensazioni e percezioni intuitive. Ciascuna via verso la conoscenza, ciascun sentiero che ci abbia portati alla convinzione che “questo è così” è legittimo ma la sua validità ultima sta nel come la nostra conoscenza ha influito sulle nostre vite, donandoci una maggior comprensione, una prospettiva più ampia, un più profondo apprezzamento per i modi di vedere altrui.

     La vera libertà, potremmo suggerire, richiede un desiderio di esaminare la mente in tutte le sue modalità di conoscenza. Noi viviamo, per la maggior parte, in modo indiretto, in maniera reattiva e troppo spesso piuttosto inconscia. Le nostre reazioni usuali sono tante volte dovute all’abitudine e noi rispondiamo senza riflettere, abituati a vecchi modelli di azione. Quando ci viene rivolta una domanda possiamo rispondere citando qualche libro che abbiamo letto, qualche affermazione che abbiamo sentito e accettato per vera, senza troppo pensarci, basando la nostra accettazione solo sulla considerazione per la persona che l’ha fatta. C’è un certo piacere, che è anche libertà, nel considerare le cose da un punto di vista diverso da quello abituale.

     E’ stato detto che tendiamo a vivere o assorti nel passato o in un’anticipazione del futuro. L’impresa è quella di liberare la coscienza dai fardelli del passato e del futuro; essere liberi significa vivere interamente nel presente. Qualcuno ha suggerito che “nemmeno Dio può liberare l’uomo dal suo passato finché egli stesso non desideri farlo”. Per liberare il pensiero potrebbe essere necessario esaminare da vicino quanto quello che riteniamo di sapere è basato sui nostri condizionamenti passati, tanto quanto sul desiderio che le cose siano nel modo in cui crediamo debbano essere! La storia biblica del paralitico che fu portato da Gesù per essere guarito illustra, allegoricamente, il problema che molti di noi affrontano nella ricerca della libertà di pensiero. Rivolgendosi all’uomo il Maestro ordinò: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e tornatene a casa”. E così il paralitico fu guarito, avendo egli obbedito ai tre ordini: primo quello di “alzarsi” corrispondente al ridestarsi e rimettersi in piedi, che simboleggia la libertà di muoversi; secondo quello di prendere il suo lettuccio e non di separarsene. Questo, potremmo suggerire, indica la necessità di osservare le nostre circostanze presenti, esaminando le condizioni che ci hanno portato all’odierno stato di malattia o sottomissione, condizione che abbiamo creato noi e che dobbiamo guardare in faccia onestamente e senza paura. E per ultimo ha obbedito all’ordine di tornarsene a casa, che significa riconoscere che se noi per essere liberi non ci osserviamo interiormente, continueremo ad avere dei limiti, sia fisici che mentali. Quale che sia il genere di limite – fisico, mentale o di qualsiasi altra specie – andare nella nostra “casa” spesso significa solo cambiare attitudine, vedere le cose come sono realmente, riconoscendo la nostra tendenza a pensare secondo linee abituali, senza esaminare le nostre convinzioni e certezze.

     La vera libertà di pensiero, che significa una mente sgombra da interessi egoistici, dalle cristallizzazioni del passato, dalla cieca accettazione di verità altrui, implica la volontà di intraprendere il rigoroso compito di capire se stessi in modo da comprendere coscientemente quello che sappiamo e come siamo arrivati a saperlo, quale che sia la cosa che abbiamo accettato per vera. La verità è una condizione della mente che può verificarsi solo quando essa è davvero libera da ogni impedimento psicologico. Tali impedimenti sono stati ben definiti nella filosofia dello yoga. Di questi ostacoli, usualmente definiti klesa, il dottor I.K. Taimni ha dato dettagliata spiegazione nel suo chiaro libro, La Scienza dello Yoga, dove traduce questi rilevanti versi: “La mancanza di consapevolezza della Realtà, il senso di egoismo o della condizione di “Io sono”, l’attrazione e la repulsione verso gli oggetti e il forte desiderio per la vita sono i grandi dolori o cause di tutte le sofferenze della vita” (II, 3).

     Queste cinque sofferenze psicologiche non sono solo la causa del dolore e dell’afflizione, ma impediscono anche la chiara visione delle cose come sono, condizione necessaria per la libertà di pensiero. Ed è solo riconoscendo e successivamente affrontando la loro presenza a livello mentale ed emozionale che possiamo cominciare a liberare la mente da tali ingombri. Una mente così liberata è ampia, una mente in cui c’è freschezza di percezione, apertura alle nuove idee e un piacere creativo nell’esplorare tutte le possibilità. Un altro ulteriore pensiero sorge se si prosegue nella lettura di quel notevole discorso inaugurale che ha pronunciato il Colonnello Olcott. Radicata in esso sta la convinzione del Presidente-Fondatore di questa Società che proprio il nome dell’organizzazione abbia in sé la chiave per un esame di qualsiasi idea possa essere sostenuta dai suoi membri. Da nessuna parte in tale prolusione e nemmeno negli scritti e nei discorsi dei Presidenti successivi, alla parola “Teosofia” è mai stata data una definizione ufficiale alla quale tutti i membri debbano aderire. Eppure la Società, fin dal suo inizio, è stata conosciuta come Società Teosofica. E così Olcott, nel collocarla entro il contesto dei suoi antecedenti storici, come il Neoplatonismo e la Teurgia alessandrina, parlò del suo lavoro come del “revival dello studio della Teosofia”. E’ a questa visione del mondo che siamo invitati a dare la nostra attenzione quando aderiamo agli Scopi della Società Teosofica ed è allora allo studio della Teosofia, che dobbiamo portare la nostra mente aperta e sgombra, esplorando tanto profondamente, intensamente ed ampiamente quanto siamo in grado di fare, per trovare in tale sola parola e in tutto quello che implica la ricchezza della saggezza.

     Circa quattordici anni dopo aver pronunciato il suo discorso inaugurale, Olcott pubblicò un articolo in The Theosophist, il giornale fondato dalla sua collega H.P. Blavatsky e che, grazie alla sua direzione, divenne la rivista ufficiale del Presidente. Quell’articolo, intitolato “Teosofia applicata” apparve nel giugno 1889 e fu più tardi ristampato come Adyar-Pamphlet nr. 145. Ribadendo di nuovo il principio fondamentale della libertà di pensiero della Società Olcott scrisse: “Quello che la Società ha fin qui fatto… è stato di far pensare la gente. Nessuno può stare a lungo nella Società Teosofica senza cominciare a fare domande a se stesso. L’aria stessa della Teosofia è impregnata dello spirito di ricerca… E’ un vero desiderio di conoscere e di imparare la verità… il fatto è che la Società Teosofica attrae persone con una naturale predisposizione ad esaminare, analizzare, riflettere… noi abbiamo… una Società senza opinioni ma con determinati “Scopi”, principi e metodi che danno come risultato una tendenza a certe modalità di pensiero e teorie dell’Universo, teorie alle quali è stato dato il nome di Teosofia”.

     Ma Olcott, l’idealista pratico, il visionario che pure metteva in pratica ciò che diceva, non era soddisfatto di quella che definiva “la parte intellettuale o filosofica della Teosofia… il frutto dell’influenza della Società Teosofica in una sola direzione”. E così egli aggiunse, nello scrivere riguardo alla “Teosofia applicata”: “Coloro che vengono influenzati dallo spirito teosofico ne sono condizionati tanto eticamente quanto filosoficamente. Le stesse cause che producono una certa tendenza del pensiero producono anche una disposizione ad agire in un certo modo”.

     Quando la mente è davvero libera, quando investiga, indaga, esamina, esplora le grandi idee ricomprese dalla parola “Teosofia”, quando tutte le vie alla conoscenza confluiscono in quella luminosa realizzazione che per ciascuno di noi è la verità senza nessun “me” o “mio” a limitarla o a farne un dogma nel quale gli altri possano inciampare, allora la nostra vita parlerà di quella verità in ogni momento di ogni giorno. Quando la mente non è più condizionata da simpatie ed antipatie, dall’egoismo e dalla preoccupazione per se stessa, la percezione è chiara e la verità sorge naturalmente, non come una verità o la verità, ma come l’essenza della verità in tutta la sua bellezza e meraviglia.

     Tratto da The Theosophist, marzo 2007, traduzione di Patrizia Moschin Calvi.

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