|
Monte Verità, 14 Marzo 2008
Vorrei dar inizio a questa relazione
citando uno dei maggiori “teosofi-non-Teosofi”
della storia della letteratura. Io amo chiamare “teosofi-non-Teosofi” quelle grandi ed antiche anime che hanno
servito, prodotto e divulgato
Questo teosofo, premio Nobel per
la letteratura nel 1946, è il grande Hermann Hesse, che nel
Io considero H. Hesse il mio
primo maestro spirituale, la cui lettura, nei miei primi venti anni, mi portò
vicino per la prima volta e con fervente entusiasmo, alla cultura Orientale,
alla ricerca interiore, alla meditazione e, in qualche modo, alla Teosofia,
trovando in lui l’approccio al Sentiero, la profondità della ricerca e dell’interiore
sentire, quei germi di teosofia che ritrovai poi nella letteratura teosofica e che
mi accompagnarono durante il mio cammino di un altro ventennio verso
Ma vengo alla citazione, che magari è stata scritta proprio in questo magico luogo:
La fede che intendo io non si può facilmente tradurre in parole. Si
potrebbe all’incirca definire così: credo che nonostante la palese assurdità,
la vita abbia nondimeno un senso; io mi rassegno a non poter comprendere questo
senso supremo con l’intelletto, ma sono pronto a servirlo, dovessi anche per
questo sacrificare me stesso. Percepisco dentro di me la voce di questo senso
nei momenti in cui sono realmente vivo e perfettamente sveglio. Ciò che la vita
da me richiede in quei momenti voglio cercare di realizzarlo, anche se è cosa
che va contro le mode e le leggi consuete. Questa fede non si può impartire per
comando, né alcuno vi può costringere se stesso: è dato solo viverla.
Hermann Hesse (1877 – 1962)
Credo - ed inizio con il termine “credo” proprio parlando della fede – che non si possa parlare o filosofeggiare intorno a questo concetto senza prima chiarire un punto fondamentale, o meglio, una fondamentale distinzione.
Così come noi teosofi e/o membri
della Società Teosofica, distinguiamo una Teosofia con
Con questo intendo dire che, dobbiamo
distinguere
Manaranche ci dice invece: “Noi
non crediamo per delle ragioni, ma abbiamo delle ragioni per credere” e R.
W. Emerson enuncia: “Tutto ciò che ho veduto mi induce a
confidare nel Creatore per tutto ciò che non ho veduto”.
Per approfondire questa distinzione, vorrei tornare alle basi filosofiche della teosofia occidentale e cioè alla scuola eclettica e neo-platonica di Alessandria d’Egitto, con le sue confluenze culturali e radici spirituali nello gnosticismo dei primi secoli dell’era cristiana.
Furono infatti gli gnostici alessandrini, primevo impulso della moderna Teosofia, che in Occidente distinsero, nel loro portato spirituale, la fede cieca e exoterica degli “Ilici” e degli “Psichici”, da quella esperita ed esoterica dei “Pneumatici” o Spirituali, la “Pistis-Sophia” della Gnosi, una fede che scaturiva quantomeno dall’interiore e soggettivo sentore del Divino, “dell’Altro”, se non dall’esperienza mistica ed estatica, dalla teosofica percezione ed intuizione diretta della Verità, in ultima analisi!
Come i Fratelli Orientali,
Così
Quindi fede, vera fede, come Teosofia e cioè essenziale esperienza diretta, ricerca spirituale, studio e Fratellanza ed infine, fede come frutto maturo della tensione dell’anima umana verso la conoscenza di Dio e della divina Saggezza, di cui Egli è al tempo stesso creatore, fonte ed emanazione, seguendo la legge spirituale dell’eterna e onnipresente Trinità.
Come
Fede, dal latino “Fides”, da dizionario è l’adesione incondizionata ad un fatto o ad un’idea, a livello spirituale diviene l’adesione incondizionata ad una verità religiosa che sia rivelata o soprannaturale.
La parola fede è propriamente intesa come il credere in concetti, dogmi o assunti, in base alla sola convinzione personale o alla sola autorità di chi ha enunciato tali concetti o assunti, al di là dell’esistenza o meno di prove empiriche o sperimentali, pro o contro tali idee o affermazioni.
Molto spesso fede sta per “fedeltà” o comunque ne ingloba il significato e ne rappresenta la radice, ancora più spesso con fede si intende la credenza nell’esistenza di Dio o, ad un livello più alto, il modo di relazionarsi a Lui.
Ritroviamo la fede in una delle tre virtù teologali, insieme alla speranza ed alla carità… Paolo di Tarso nella prima lettera ai Corinzi (e con lui il Vangelo esseno della pace), ci dicono che è più importante la carità o Agape: “…Ora, solo tre cose contano: fede, speranza, amore. Ma la più grande di tutte è l’amore”, ma è anche vero che senza la fede non si hanno le altre due, infatti nella “Lettera agli Ebrei” troviamo che: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”.
Non vi è speranza senza che sia alimentata la fede in quello che vogliamo e non vi è vero amore, Carità, Agape, se prima una profonda fede nel potere dell’amore non ha pervaso i nostri cuori… Così la fede è la più grande, perchè solo credendo le acque si apriranno, fede è volontà in azione, nutrimento della mente mistica, catalizzatrice della Luce Astrale e della Divina Presenza.
Il Nuovo Testamento parla quasi tanto del dubbio quanto della fede, del dubbio di cui parla Isaia nel Vecchio testamento ed al quale tutti e quattro i Vangeli canonici fanno riferimento.
La fede è come un niente, quasi impercettibile, piccola come un granellino di senape, dice il Cristo in Luca ( 17,6); ma allo stesso tempo è «più preziosa dell’oro» (1 Pietro 1,7). Con la speranza e la carità, essa rimane per sempre (1 Corinzi 13,13). Massimo il Confessore identifica, nel VII secolo, la fede con il Regno di Dio: «La fede è il regno di Dio senza forma visibile, il regno è la fede che ha preso forma secondo Dio». Aggiunge poi che la fede «realizza l’unione immediata e perfetta del credente con il Dio in cui crede». Quindi la fede non come un biglietto d’ingresso per il regno di Dio, ma l’immanenza di Dio nella fede… nella fede stessa Dio è presente.
Il Vangelo di Giovanni, il più
esoterico e simbolico se vogliamo, ci dimostra che la fede non è qualcosa di
automatico e fino all’ultima pagina ce ne dimostra la fragilità. Giovanni ci
mostra la fede a partire dal suo contrario. Sin dall’inizio Cristo è ignorato: “Venne tra la sua gente, ma non fu accolto
dai suoi” (Giovanni 1,10-11). Ed è anche vero che
molti hanno seguito il Cristo Gesù, per poi smettere di credere in Lui in un
secondo tempo: «Molti dei suoi discepoli
si ritirarono indietro e non andavano più con lui» (Giovanni, guarda caso
il passo: 6,66). Poi dice: «Per questo vi
ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio»
(Giovanni 6,65). Egli, Cristo, non suscita la fede con la persuasione, in
quanto la fede supera per profondità l’intelletto e la sfera emozionale e si
radica là, dove il salmo 42,7 ci dice che “L’abisso
chiama l’abisso”, in quella profonda regione dell’essere dove la profondità
dell’umano abisso sfiora l’abisso del Divino.
Il teologo Bruno Forte,
per illustrare il tema della fede, si è servito di tre scene:
Prima scena: "Davanti al Signore del
nulla", che vorrebbe spingere fino in fondo il contrasto tra fede e
ragione, la teoria, tutta Occidentale del “Nichilismo
storico”, la tesi cioè per la quale una ragione esercitata fino in fondo
non può portarci nei tratti pacificanti della fede, ma ci porta semplicemente
sulle sponde del nulla. A testimone di questa prima figura l'autore cita un
pensatore ancora poco conosciuto ma riscoperto in questi anni: Andrea Emo, che teorizza con convinzione che "tutto sia il nulla e che nulla valga
veramente la pena perché tutto alla fine dal nulla viene e nel nulla
precipita".
Seconda scena: "Verso il Dio
possibile", dove vengono scelti i
due pensatori contemporanei Massimo Cacciari
ed Enzo Vitiello. Massimo Cacciari,
soprattutto nelle opere Dell'inizio e
Della cosa ultima, ci porta di fronte
a una scelta radicale dove la ragione non è sacrificata, ma è spinta fino in
fondo. Quando questo avviene, quando il coraggio dell'interrogazione è
esercitato senza risparmio, non si può non giungere allo stupore della ragione,
al "cogitor ergo sum"od
all’"esisto perché altri mi pensano,
perché altri mi chiama ad esistere". Così questa ragione si ferma come
stupita davanti ad una soglia, ad un'alterità. Qui si apre uno spazio
straordinario per l'incontro con la fede.
A questo incontro perviene l'altro interlocutore, Vincenzo
Vitiello, più radicale di Cacciari nel nichilismo delle sue origini e forse
proprio per questo più radicale nelle sue conclusioni soprattutto nelle ultime
opere. Egli afferma come il grande spazio della conoscenza nell'aprirci al
mistero è l'invocazione. Non è un caso che Vitiello dichiari apertamente di
approdare alla fede e chiude con pagine straordinariamente potenti sulla
preghiera come possibilità di esercizio supremo dell'interrogazione della
ragione convertita in ascolto.
Terza scena: "Fra paradosso e
analogia". La sfida è vedere come fede e ragione possono
incontrarsi. Vengono qui evocati due modelli dell'anima cristiana. Il primo è Paolo di Tarso che nella Lettera ai Romani scrive
forse la pagina più alta che la riflessione umana abbia saputo dedicare alla
condizione tragica dell'esistenza umana: l'impossibilità di fare il bene che
vorremmo, questo sperimentare in noi la potenza del male. Per Paolo in questa
condizione tragica si fa presente il Dio cristiano. Il Dio cristiano non è
l'altra parte oscura. Il Dio cristiano è l'Altro che viene a noi, che abita la
morte, che accetta di assumere su di sé la maledizione. Il paradosso di Paolo è
una ragione che accetta di lasciarsi scandalizzare da un Dio che si fa prossimo
e proprio così, dal di dentro, redime con la potenza del suo amore la
condizione umana.
L'altro modello è Tommaso d'Aquino il pensatore dell'analogia, che sceglie la via del pensiero analogico, pensiero che dice tacendo, che svela velando, che evoca mantenendo la lontananza. Per Tommaso è questa la ragione della fede. Ed è una ragione fino in fondo esercitata quella che sappia e voglia essere analogica, cioè che sappia mantenersi "solitaria custode del mistero". E' una ragione aperta, aperta al mistero stesso.
Bruno Forte conclude: dopo queste tre scene, quale sopravvive? La fede, la ragione, nessuna delle due, entrambe? La risposta del teologo alla luce del percorso fatto è: certamente entrambe. A condizione che entrambe siano anzitutto agoniche, cioè che accettino la sfida, la lotta.
Una ragione troppo sicura di sé, una ragione ideologica, diventa violenta e totalitaria.
Una fede che non faccia spazio al dubbio, rischia di divenire una rassicurazione comoda.
Dunque, fede e ragione agoniche, che accettano la lotta e la passione e proprio così si aprono all'amore, a quel contesto, a quell’accezione d’Agape della parola “amore” che si adopera per esprimere la forma più alta dell'Incontro con la fede e l’Assoluto.
Cito Bruno Forte:
Quando la ragione
è spinta fino in fondo,
quando il coraggio dell'interrogazione è esercitato senza risparmio,
non si può non giungere allo stupore della ragione,
a quella ragione aperta che si ferma davanti ad un'alterità.
Qui si apre uno spazio straordinario per l'incontro con la fede.
Quindi, la fede e la ragione come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità, ma lasciatemi anche concludere con questa citazione:
“Se la ragione non può dare la fede, l’ignoranza la può togliere”.
Bibliografia:
Il mio credo, Hermann Hesse, BUR 1988;
I Vangeli gnostici, di Elaine Pagelg, Oscar Mondatori 1979;
Lettera da Taizé 6/2004, dal sito:www.taize.fr/it;
www.federagione.it;
Wikipedia, l’enciclopedia libera;
Dove fede e ragione s'incontrano? Bruno Forte, Giulio Giorello, Sanpaolo 2006.
Angelo Luciani è il Presidente del Centro Studi Teosofici “Paraclitus” di Trevignano Romano.