La conoscenza superiore
Di: Silvano Demarchi
L’idea di assoluto
In una poesia di Wolfgang Goethe compare un’intuizione altissima:
“Se l’occhio non fosse raggiante come il sole,
non potrebbe mai scorgere il sole;
se la forza di Dio non fosse in noi,
come potrebbe farci andare in estasi il divino?”.
In altre parole come potremmo cogliere il mondo contingente, transeunte e riconoscergli queste caratteristiche, se non recassimo in noi l’Idea di Assoluto quale parametro di confronto? E’ attraverso il positivo che colgo il negativo, attraverso la pienezza che avverto la mancanza o il limite. È solo la presenza di questa idea che è in noi con il suo peso d’eternità, che può consentirci il passaggio dall’empirico fenomenico al trascendentale noumenico, dal contingente al necessario, dal particolare all’universale, dal transitorio all’eterno.
E’ questa l’idea del divino che può anche mandarci in estasi, proprio perché vive in noi con tutte le caratteristiche della sua imperiosa positività, per cui negarla equivarrebbe al negare la nostra più intima natura. Il Rosmini vedeva nell’idea dell’essere il fondamento di ogni atto conoscitivo, l’apriori formale, il lume della ragione, ma l’idea di Assoluto, al pari di quella universale e necessaria, è qualcosa di più ricco, di maggiormente definito nelle sue intrinseche potenzialità. Detta idea non può essere stata creata dalla mente umana nella sua finitezza, perché proprio il finito è avvertito in virtù dell’infinito, che quindi lo presuppone e gli preesiste. Essa non è che il manifestarsi di Dio alla mente umana in un’originaria e immanente epifania, di cui l’uomo è partecipe e non autore, un’idea innata nella pienezza del termine, che fonda la validità di tutte le nostre cognizioni.
Non potrei percepire le tenebre se non avessi la cognizione della luce e non potrei neppure percepire la luce, se non fossi luce; come bene intuiva Goethe: non potrei amare Dio se in me non vi fosse un raggio del divino. Così Jung: “L’anima deve possedere qualche possibilità di contatto con Dio, cioè con qualcosa che corrisponde alla divina essenza, diversamente nessuna associazione sarebbe possibile”.
L’intuizione e le idee metafisiche
L’intuizione si manifesta come scoperta di un nesso tra entità diverse: la caduta dei gravi e la forza di gravità (Newton), l’impressione lasciata sulla lastra fotografica e il radium presente nella pechblenda (Curie). La scoperta si manifesta con carattere d’immediatezza così da stupire chi l’ha avuta, mentre in realtà è il frutto improvviso di una lunga gestazione del problema nel subconscio.
Bene dice Platone: “Solo dopo una lunga dimestichezza con i problemi la verità balza improvvisa”. Spetta poi alla ragione sgomitolare il contenuto di verità, precisare i significati presenti nell’intuizione. Ciò risulta soprattutto evidente nell’esperienza artistica che è frutto di simili lampi e associazioni.
Vi è un’intuizione che coglie direttamente l’essenza nei fatti (l’intuizione eidetica di Husserl o quella di Bergson) che possono essere i più vari: cose, enti matematici, atti, gesti, espressioni….
Ai nostri sensi si manifesta solo il concreto individuale, ma l’intuizione coglie in esso l’universale (e basta un solo oggetto per poterlo cogliere) penetra nell’interno della cosa che si conosce ou dedans (“mille fotografie di Parigi non sono Parigi”, osserva Bergson).
L’intuizione può però essere anche fallace,
ma allora riguarda i dati di fatto e i loro rapporti e non le essenze e i
valori che gli spiriti più illuminati hanno sempre scorto con incredibile
accordo.
Rilevava Bergson che è attraverso
l’intuizione che noi cogliamo il flusso vitale, la memoria come durata e Dio
stesso nella sua essenza.
Le idee metafisiche, che fanno parte di
questa particolare sfera conoscitiva, se al momento della loro formulazione
appaiono magari fantasiose perché non verificabili, col passare del tempo
possono - almeno alcune di esse - venire dimostrate e verificate: è il caso
della teoria atomistica, metafisica ai tempi di Democrito, scientifica oggi,
dell’eterico, intuito più di duemila anni fa e fotografato agli inizi del
secolo dalla camera Kirlian, del concetto di evoluzione poi verificato sul
piano biologico da Darwin.
Scriveva Karl Popper nel 1934: “Dal punto
di vista storico è un dato di fatto che, accanto a idee metafisiche che hanno
ostacolato la scienza, ce ne sono altre che costituirono fecondi programmi di
ricerca: e sono esistite metafisiche che, col crescere del sapere di fondo, si
sono trasformate in teorie controllabili. E questo fatto storico sta a dirci a
chiare lettere che, dal punto di vista logico, l’ambito del vero non si
identifica con quello del controllabile”1.
Almeno al momento presente, nonostante il
nostro bisogno di verifica, non possiamo chiedere alla scienza la risposta
relativa al destino dell’uomo, non tanto nella sua esistenza oltre la vita
mortale quanto nella sua felicità, una felicità che sia il coronamento della
virtù esercitata nella vita terrena. La sfera escatologico-religiosa finora è
sfuggita alle prese della scienza positiva.
Una cosa è la conoscenza concreta,
analitica, che scruta la realtà e si ferma al relativo, altra cosa quella
conoscenza che, mediante l’intuizione penetra nell’interno della realtà,
scorgendone profondi legami. Acutamente rileva Edoardo Bratina: “Noi
possiamo osservare che il mondo sensibile, percepito dai sensi, consiste in un
continuo nascere e perire, ma nello stesso tempo, di fronte a questo incessante
mutamento di tutte le cose, intuiamo che vi è qualcosa d’immutabile, poiché
diversamente nessuna conoscenza sarebbe possibile e queste sono le idee, i
divini esemplari di tutte le cose, che stanno alla base delle cose mutevoli…
eterni archetipi i quali si trovano nella mente universale divina, la quale
coincide con la mente superiore dell’uomo, conferendogli la capacità
d’intendere”2.
Il processo conoscitivo non è che una
progressiva smaterializzazione del dato sensibile: dalla sensazione
all’immagine che ne rappresenta i caratteri empirici più generali, al concetto
che ne coglie l’essenza nella sua universalità. E’ tutto un trascendere il
concreto dato sensibile nella sua individualità per convergere verso
connotazioni immateriali, proprie di una realtà diversa da quella che
inizialmente ha mosso la conoscenza. Ma vi è anche un procedimento inverso,
discendente, che va dalle idee alle cose ed è proprio delle scienze deduttive
(la matematica), dove le idee intese non come cose ma come principi regolativi
della conoscenza, applicandosi all’esperienza formano delle sintesi di
universale e particolare, di transitorio e durevole o in cui mediante
l’intuizione la nostra intelligenza si colloca direttamente nell’interno delle
cose. In definitiva – come osserva Bergson – “la nostra intelligenza non sa
far altro che platonizzare, cioè colorare ogni possibile esperienza in forme
preesistenti”3 e viceversa.
Ma cos’è precisamente l’intuizione, di cui
tanto si parla? Secondo l’ormai classica definizione di Bergson, essa “è
quella specie di simpatia intellettuale per cui ci si trasporta nell’interno
dell’oggetto, per coincidere con ciò che ha di unico e di conseguenza
d’inesprimibile”4.
Per Husserl, l’intuizione eidetica
coglie direttamente l’essenza, l’immutabile, la forma in sé, allo stesso modo
in cui l’intuizione empirica percepisce intellettualmente gli oggetti
individuali.
Su questa base N. Hartman e M. Scheler,
sottolineandone il risvolto etico, affermarono che esiste una intuizione
emozionale che ci fa conoscere direttamente e talora inconsapevolmente i
valori etici e religiosi. Come si vede, si torna a Platone, il quale parlava di
“idee visibili alla mente e oggetto di vera scienza” (Fedro 247
b-c), di visione immediata e di presenza a priori di archetipi nella nostra
mente, per cui, ad esempio, non posso percepire l’uguale, nella sua
imperfezione concreta, se prima non posseggo l’archetipo dell’uguale nella sua
perfezione e assolutezza e così il Vero, il Bene e il Bello, il Giusto, il
Santo e così via.
Queste idee o valori assoluti non potrò mai
ricavarli dall’esperienza nella sua limitatezza, mutevolezza ed imperfezione.
Nessuna azione buona compiuta dall’uomo
sarà tale nella sua assolutezza (vi si può sempre scorgere un risvolto di
egoismo, di vanità, di riparazione o di compensazione ecc.), ma potrò dire che
è buona proprio perché nella nostra mente c’è il paradigma ideale del Bene
nella sua purezza, che consente di scorgere una gradazione della realizzazione
terrena e di distinguerla nettamente dal suo contrario che è il male.
Naturalmente solo un uomo dotato di retto
pensiero e di retto sentire potrà avere l’immediata conoscenza (intuitiva) di
questo valore che vive nel fondo della coscienza.
Note:
1. Cfr. Filosofia e filosofare di
Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero, Ed. Paravia, Torino 1986, pag. 640 (vol.
III).
2. E. Bratina, “La Teosofia, cos’è?”
in Rivista Italiana di Teosofia, Trieste, aprile 1990, pag. 98.
3. H. Bergson, “Introduzione alla metafisica” in La Filosofia dell’intuizione, a cura di G. Papini, Lanciano, pag. 77.
4. H. Bergson, idem, pag. 17.